Novembre 2006


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Les letchis se font désirer
Les premiers letchis à maturité n’arriveront pas sur les étals avant le début, voire la mi-décembre, alors que, l’année dernière, dès la mi-novembre, on en trouvait déjà à volonté sur le marché local. L’origine de ce retard considérable : le froid et la sécheresse. Les producteurs-exportateurs n’ont plus qu’à attendre.

Chikungunya : 4 Réunionnais sur 10 déjà contaminés
Les premiers résultats de l’enquête de séroprévalence menée du 16 août au 20 octobre sur l’ensemble de l’île sont tombés hier. À ce jour 38,25 % de la population réunionnaise a été contaminée par le virus du chik depuis le début de l’épidémie, soit environ 300 000 habitants. La palme revient à l’Est avec près de la moitié de sa population touchée.

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-CECCHI00 ok 2a1.jpgFRANI.gifL'immagine “http://www.itwdynatec.com/images/Animations/Global%20Spinnings/Global%20Spinning%20Pacific%20Rim.gif” non può essere visualizzata poiché contiene degli errori.vanitorsetta.jpgluca pace.jpgtoreador cocncluso carafa.jpgSacchetti Sabina -.jpgSARA PELLEGRINI 1.jpgla ragione.jpgrevori.jpglacruz-108.jpgliggannatrice di nicola macolino.miniatura.jpgveronica montanino.jpgandrea chidichimo 1.jpgfrance parisi.jpgpostalpilar.gif

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Sabrina Raffaghello, nell’ambito della programmazione 2005, presenta il progetto di una mostra personale di fotografia d’arte contemporanea. La mostra presenta i diversi cicli fotografici dell’artista che illustrano la produzione di questi ultimi anni: Apparenze, Arcimboldi, Ghost, Ibridi.

Barbara La Ragione sconvolge il vedere nel senso estetico della bellezza, ne ricostruisce un’altra apparente, vericitiera in cui i sensi sono catturati da un’impercettibile sensazione di disagio che produce una sorta di realta’ mostruosa.

Il diverso costruisce l’intimo clonato dalla parte nascosta, uno specchio magico che come un caleidoscopio ricompone e mostra quello che mai si vorrebbe vedere: l’alter ego, il doppio mascherato, ove la maschera diventa il simulacro delle emozioni e la parte oscura il tramite di un viaggio spirituale, attraverso le sensazioni e le immagini del nostro vissuto.

Questa sorta di bestiario immaginario celebra persone, cose e animali immortalandoli in una dimensione sospesa, elevandoli a una condizione di demiurgo in un mondo delle idee ove ogni canone ragionevolmente prefissato viene aborrito.

Una volta entrati in questa realta’ composita superato la naturale soggezione provocata dall’austerita’ delle atmosfere, dall’eleganza delle composizioni quasi monocrome si entra in un’atmosfera magica sospesa tra Oz e il mondo gotico di Mary Shelley.

LOST
Molta parte del dibattito sulla fotografia ha riguardato uno degli aspetti piu’ intrinsecamente legati alla concettualita’ del mezzo stesso, e cioe’ il suo essere un attestatore di verita’, una traccia, un brandello di realta’ congelato nel tempo.

Ben presto, poi, ci si rese conto di quale portata potesse avere questo aspetto per gli sviluppi di un’arte, quella contemporanea, sempre piu’ irrequieta, perche’ fu proprio da qui che ebbe inizio tutta una serie di ricerche che avrebbero avuto l’obiettivo di far cortocircuitare in maniera sempre piu’ evidente questa pretesa di verita’ con immagini assolutamente estreme.

L’emergere di un’urgenza nei confronti di tematiche sociali, invece, fece comprendere quanto fossero necessarie immagini dirette, crude anche, e forti insomma al punto tale, da generare una reazione attiva. Fu cosi’, allora, che nacquero il reportage e la fotografia sociale, ma non solo, perche’ sempre piu’ sembrava essere importante svolgere un’indagine che riguardasse l’essere umano inteso come individuo, come personalita’, ma anche come corpo in relazione con il mondo. Si trattava, insomma, di vedere l’uomo a tutto tondo, un uomo, quello contemporaneo, la cui complessita’ andava man in mano dichiarata, per essere resa meno problematica a livello singolo e sociale. Ma, lo abbiamo detto, la fotografia ha il grande potere di rendere reale un certo hic et nunc, e molti decisero che le realta’ ibride, fisiche o mentali che fossero, andavano mostrate, e fu cosi’ che nacque il filone dei travestitisti, che in Marcel Duchamp, Pierre Molinier, Urs Luthi e Luigi Ontani ebbe tra i suoi piu’ grandi esponenti.

Nel corso degli anni, poi, grazie anche al continuo e inarrestabile progresso tecnologico, molte cose sono cambiate, e l’avvento del digitale ha permesso agli artisti di diventare sempre piu’ demiurghi di realta’ altre e parallele, dove una dimensione onirica spesso si unisce ad una fantascientifica, immaginaria e animata vita alternativa.

Ora, cio’ che e’ fondamentale comprendere, e’ che queste premesse, vista la loro importanza, sono state assimilate dagli artisti in maniera totale e completa, analizzate criticamente e assorbite anche nelle loro componenti piu’ radicali e rivoluzionarie, sino alla spontanea convergenza in un complesso e raffinato linguaggio, un linguaggio, quello degli artisti di oggi, giunto spesso ad una maturita’ linguistica, stilistica ed espressiva che affonda le proprie origini in una liberta’ culturale che proprio le esperienze precedenti hanno saputo veicolare.

Ecco allora che parlare di Barbara La Ragione ci porta proprio al centro di tale questione, perche’ la genialita’ del suo lavoro comincia proprio da qui, da quella liberta’ artistica, intellettuale ed umana con cui affronta il tema del ritratto, un ritratto che ha tutta la freschezza di un’indagine nuova e autonoma, ma anche la serenita’ di chi sa che voltarsi a guardare cio’ che e’ stato, e’ un bene, perche’ permette di crescere e aiuta a leggere la contemporaneita’ in modo piu’ maturo e responsabile.

Tutto parte dall’accettazione della deformazione, della mostruosita’, di un concetto estetico totalmente al di la’ dei canoni cui i media ci hanno abituati, eppure, nonostante tutto, i personaggi di La Ragione hanno una bellezza accattivante e magnetica, il fascino della diversita’, di una diversita’ che si accetta come tratto caratteristico individuale, unico e irripetibile.

Ma non e’ tutto qui, perche’ le maschere di silicone applicate ai volti, piu’ che nascondere, mostrano, fanno emergere tutta la forza degli sguardi e delle espressioni, fungendo da vere e proprie casse di risonanza dei moti dell’animo, e dimostrando che la deformazione puo’ essere anche un valore aggiunto.

E se questi individui sono persi nella loro condizione di alternativi, lo sono in maniera disinvolta e naturale, in tutto il percorso della loro trasformazione da creature sfigurate, ad esseri via via sempre piu’ incrociati con l’animalesco e con i suoi connotati mitici e fiabeschi.

Quella di Barbara La Ragione e’ la storia, forse, dell’epifania di un uomo nuovo, un uomo capace di perdersi nelle sue componenti piu’ nascoste e difficili, ma anche un uomo che affronta se stesso e gli altri mostrandosi senza timore in tutta la sua verita’, un uomo che non teme lo scatto fotografico, quel rilevatore di realta’, in grado, anche, di amplificare il brutto.

Del resto, poi, il ruolo delle immagini, nella nostra societa’, e’ enorme, ed e’ continuamente accresciuto da una forma sempre piu’ diffusa di voyeurismo, stimolato da quei canoni estetici fondati sulla mostruosita’, e incrementato dal trattamento che l’artista riserva per i suoi personaggi. Certo, perche’ la costruzione delle sue foto risente di tutta quella tradizione che fa capo al ritratto nel senso in cui lo hanno interpretato un certo Giorgione e Tiziano, e poi, massimamente, Caravaggio, una forma d’arte, insomma, scaldata di attributi e sentimenti vivi e palpabili, che diversamente dal ritratto di stato, preferiva soffermarsi anziche’ sugli attributi di rango, su quelli piu’ intimi e caratteriali, e dove il brutto non era ne’ bandito ne’ mascherato. Anche la composizione formale, seppur nella sua disinvoltura, conserva quella patina di ufficialita’ che era stata propria del passato, e che qui, aiutata dalla concettualita’ della fotografia, ha la funzione di congelare nel tempo il ruolo profetico di questi personaggi, che dalle Apparenze, ai Ghost, agli Hybrid, agli Arcimboldi, si dichiarano apertamente in un crescendo di mostruosita’ animalesca. E in effetti, poi, di tutta l’ufficialita’ che ha sempre accompagnato questo genere, rimangono delle altre tracce evidenti, e non a livello formale, perche’ le cornici, quelle splendide cornici napoletane che fanno parte della tradizione, sono corpo unico con le foto. E allora, in questo gioco di rimandi storici e culturali tra passato e presente, fare un discorso sul tempo, diviene fondamentale, perche’, se da un lato la fotografia e’ stata piu’ volte definita come un attimo congelato di memoria, dall’altro un movimento temporale c’e’, ed e’ un movimento complesso, nel suo creare una traiettoria tra la storia della cultura e quella dell’intimo e personale sviluppo che ha fatto dell’uomo un essere moderno. E se poi, a tutto questo, sommiamo anche un’idea di spazio ingannevole nel suo manifestarsi come uno sfondo piatto, ma vorticoso nel suo attivare circuiti emozionali e cerebrali di una certa elaborata raffinatezza, allora avremo chiarito almeno qualche aspetto, avremo dato qualche piccolo indizio per poterci avvicinare con la mente sgombra da condizionamenti, a quella storia che narra lo sviluppo di una coscienza del se’ e del proprio relazionarsi con essa, perche’ e’ anche questo che fa Barbara La Ragione, ci mostra la sua versione di una possibile antropologia contemporanea.
Elena Forin

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“Syd Barrett sulla nave dei folli – sublime coscienza alla deriva” da “Primo Piano cultura”

“Uno nasce e poi muore, il resto sono chiacchiere”. Non c’è dubbio che la sintesi filosofica dei fumettisti, in tempo di innovazioni comunicative, ovvero quando, molte delle “grammatiche” e dei  linguaggi collettivi, per intenderci, i  linguaggi della gente comune, non quelli  collegiali  dei tribunali e delle convenzionalità istituzionali, sono in fermento,  e gli strumenti della comunicazione, i vecchi strumenti della notizia, come le  universali pratiche  epistolari (cariche di attese spirituali), distribuite liturgicamente dalla fraterna figura del postino,  che nei piccoli centri e nei paesi, e ne è testimonianza il  bel film francese, “Jour de fête” del ‘47 di Jacques Tati,  impersonava l’imbastitura del vestito informativo della comunità, quando queste antiche maniere della comunicazione, vengono rimpiazzate dalle pionieristiche innovative strumentazioni planetarie, internet per esempio, i fumettisti, appunto, Altman in questo caso,  diventano il migliore strumento sintetico per definire e “disegnare” il senso della nostra vita. Diventano, a guisa della musica psycoelettronica  patrimonio all’origine di Syd Barrett,   linguaggio universale che aborra selezioni tra alfabetizzati e non, e diventa  il nostro colpo d’occhio, la nostra visione lampo sul senso delle cose e del mondo. La creativa funzione del fumetto, insomma,   ci permette, anche ironicamente, ma con profonda e nucleare sintesi, di farci gustare, “di dirci”, nella bellezza del segno e della creatività sottile della grafica e della parola,  che genere di viventi  siamo e che cosa facciamo, qui, sulla pelle di questa nostra grande madre terra. E il fumetto ci consola dicendoci,  nella  dovuta maniera metaforica,  che non siamo altro che specie umana che si presenta, di volta in volta, progressivamente o per revival storici,  come dice Umberto  Eco,  con la propria forma culturale ritratta nell’immagine simbolica  di  anelli della stessa  catena con cui, nel secolo di appartenenza,  si legano tra loro le generazioni che abitano e costruiscono  il mondo. Così, uno nasce e poi muore, e il resto sono chiacchiere, spazza via ogni paura antropica  della morte, pulisce  il lutto dall’immagine di tristezza  e pietas che anni contingenti  di ritualistiche sociali, non senza fatica, hanno strutturato per la rappresentazione pubblica del dolore e della pena. Toglie il paravento dall’esibizione obbligata del pudore e, con un semplice segno, genuino e calibrato, mette a nudo il mondo nella sua verità più sincera. Il gioco di esistere si fa ludico, cade la maschera all’obbligo della rappresentazione e il semplice genuino  mondo mentale dell’infanzia riconquista il  regno tra le regole degli adulti. Il fumetto e la musica, in qualche modo, sono  la parte sociale di noi più sincera e veritiera. Quando muoio i personaggi,  che il destino pronuncia dalla nascita fondanti i cambiamenti universali, questo nostro sincero mondo comunicativo, la musica e il fumetto, Barrett e Jacovitti per esempio, presi per comodità di scelta nel paniere delle offerte dell’olimpo, la nostra catena generazionale subisce delle rotture, si fessura, e a volte si spezza. Bisogna aspettare l’intervento di altri grandi uomini capaci di rimpiazzare il mancante e risaldare la nostra continuità esistenziale. A volte, basta poco per intuire l’aria dell’avvenuta mancanza. Bastano pensieri interventisti, sensazioni magiche, piccoli fremiti dello spirito mentre si viaggia in treno guardando incantati dal finestrino, normalmente non molto trasparenti, i fotogrammi di un paesaggio italiano che scorre lungo le brutture architettoniche dell’Adriatico, e la mancanza o la rottura della catena, appare silenziosa e intima come un magone che assale alla gola gridandoci in petto che una parte di noi, la nostra bella parte cresciuta all’ombra subliminale dei Pink Floyd, è evaporata, svanita tra le molecole della memoria sensibile ed emotiva dell’adolescenza e il treno, il finestrino, la bruttura architettonica lungo la costa adriatica, ci crollano addosso come le pareti instabili del nostro immaginario, strattonate dalle  onde sismiche di un terremoto. Basta una pagina di giornale che annunci nel titolo, Syd Barrett è morto, e d’improvviso, come un canto poetico di  Montale, “Forse un mattino andando in un’aria di vetro arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco”, la lirica  generazionale  che ha costruito il nostro mondo carico di attese e di sconvolgimenti planetari, il nostro mondo libero nella rivoluzione dei suoni musicali inventati dallo sciamanesimo di Syd Barrett,  cade, rotola verso il silenzio e il vuoto.  Aveva 60 anni e soffriva di diabete, da 30 anni viveva lontano dai palchi.  Creò, nel ’65, il gruppo dei Pink Floyd che abbandonò, staccandosi, come un’anima dal suo corpo che non riesce  più a sostenerla, tre anni dopo. Le innovazioni di suoni e di stile, il linguaggio di Roger Keith, questo il vero nome di Barrett,  creato per l’album di esordio, sono diventati un archetipo musicale, al pari delle composizioni di un  Wagner o di un  Ludwig van Beethoven, al pari di una ricerca filosofica di Schopenhauer o di Goethe, o ancora, al pari di una figura che meglio gli si adatta per stile, linguaggio e  biografia, portati da un Nietzsche, in  “umano troppo umano”. A ventuno anni, Syd Barrett ha già perso il contatto con la realtà e nei concerti smette di cantare improvvisamente, o canta la stessa nota per lunghi minuti. I suoi discepoli, i  Pink Floyd, si dice che cerchino in qualche modo di  salvare la sua vena compositrice. Gli  configurano un ruolo puramente di scrittura, senza presenza  sui  palchi.  Il tentativo non funzionerà. Il  solista Barrett incise nel ’70 The Madcap Laughs, Le risate del cappellaio matto. Alla fine del ’72 fu ricoverato per la prima volta in una clinica psichiatrica, poi,  negli anni successivi, altre  volte. Su di lui, o su quello che restava dell’immagine pubblica di Syd Barrett,  calò il sipario, al punto che in certi momenti fu addirittura dato per morto, nonostante la sua influenza continuasse a riflettersi su intere generazioni di musicisti e di comportamenti sociali. Nel ’75 l’ omaggio dei Pink Floyd con ‘Shine On You Crazy Diamond’, ‘Splendi, folle diamante’; una tenera dedica commossa riflessa  nel titolo dell’intero disco, ‘Wish You Were Here’, “Vorremmo che fossi qui”. Ed è così, Vorremmo che fossi qui grande genio innovativo che appari come un lampo dai titoli dei giornali nell’ora della tua scomparsa con un’icona fotografica che ti ritrae mentre cammini pavido nelle strade degli inglesi con la tua testa calva e i fogli di giornali tra le mani, e sulla camicia azzurra, magicamente appare una scritta indecifrabile che riapre il silenzioso mistero che ti avvolge e ci avvolge, adesso, tutti insieme nella nostra platinata forma di anelli della  catena generazionale e della storia. ‘Wish You Were Here’ grande Syd Barrett. E con te, vorremmo, forse, ci fossimo anche noi, presenti, qui, adesso, ad inventarci il mondo magico dei suoni che ci hai donato senza mai chiedere nulla in cambio se non la tua incredibile solitudine che è, poi, la solitudine religiosa dei geni e dei realizzatori di sogni planetari.

 

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Igor Verrilli; Meraviglia e continuità di senso

Non è la prima volta che incontro e scrivo per Igor Verrilli. Credo questa pratica amicale e sentita duri da qualche lustro. L’inizio. L’incontro e la sua espressività, mi meravigliò nell’uso che il poeta barocco Giambattista Marino intendeva con questo verbo a suo tempo. È già questo sostrato “empatico” sarebbe stato sufficiente a farmi restare incantato davanti alla sua veloce creatività. “E’ del poeta il fin la meraviglia[…]chi non sa far stupir vada alla striglia”. Discendendo, virtualmente tra le maglie del tempo storico, passando dall’anima estrosa del Barocco al Manierismo disciplinatamente tecnico, con Verrilli, si entra nella dimensione magica dell’alto Medioevo. Il gioco ironico tra parola e icona, tra immagine letteraria del titolo e percezione visiva della figura, ricondotta all’incontro con lo spettatore contemporaneo, sublima, in senso prettamente “gestaltico”, il linguaggio di un’epoca cronologicamente superata, ma rigogliosa e latente ai presupposti “vichiani”, imposti dalla fibratura iniziatica del nostro millennio e dal pionierismo secolare che ci tocca vivere per combinatoria cosmica. Le “madonne” diventano segni fisognomici che trattano temi e strane parossistiche filosofie che a volte “tangono” semanticamente perfettibili neologismi della significazione strutturando uno stile riconoscibile, anche “con leggerezza per la simpatia espressiva”, e diffuso dalla notorietà acquisita per abbondante carriera da Verrilli. La grassezza, la smorfia, la gola, la lussuria, lo spettacolo, il gioco, l’ironia (appunto), il desiderio, la vanità, l’incesto, traslano dalle pagine liturgiche, che comunque Verrilli non scoraggia di adornare con le riprese “grottesche”, alle inquadrature pittoriche, che, per scelta disciplinare in omaggio all’azione formativa delle buone accademie, “si realizzano” in olio e classicità imbevuta di fantastico fiabesco, ilare e provocatorio, “dianetica”. Dalle ritrattistiche nordeuropee, al partenopeo vigoroso e salubre, Igor Verrilli, riassume meccanicamente la devozione archetipale sfruttando, nel sapere pluridisciplinare, tra sentire musicale e conoscenze scientifico-anatomiche, il vuoto narrativo che, in questo momento storico, affanna il senso latino e mediterraneo. Si separa dalle accelerate ricerche e improvvisati labirintici linguaggi espressivi che viaggiano in massa nei luoghi deputati alle presentazioni, e rientrano come modelli eretici, nel sistema divampato delle canonicità ufficiali. Le opere toccano il battito cardiaco della nostra percettività, sfiorano i sogni messaggeri della “freudianeità”,provocano il nostro profondo essere “shakespeareiano” e ci ritornano nel percettivo sensoriale, nella realtà, in forma di gioco del buffone che esorcizza le regole silenziosamente imposte del dramma esistenziale. Paura e ricchezze sfogano il rituale desiderio del togliere e dell’avere, con un approccio della ritrattistica oltrepassante le sfide dirompenti delle prospettive fotografiche. Il bianco e nero della pellicola realistica predigitale, spara nel segno ad olio i risvolti occulti della percezione retinica; l’occhio focalizza gli estremi, la gestualità involontaria, il lacanismo, il lapsus psicanalitico, l’automatismo della smorfia, il linguaggio del corpo distaccato dalla canonicità degli stereotipi comportamentali, diventando, nelle opere, verità assolute e confessionali. Poetica Verrilliana, ironica provocazione filosofica ed estetica. “Questi lavori, che sono sul catalogo, sono quelli che andranno in mostra e sono i lavori eseguiti nell’ultimo mese e mezzo. Come puoi vedere c’è sempre il fattore bianco e nero che mi permette di ottenere effetti tecnici diversi e a mio modo di vedere da un area di sogno ai miei personaggi. Fisicamente si sono ingranditi come puoi vedere dalle misure, volti enormi oggetti di consumo “molisani” ingranditi a dismisura. Sicuramente non è un punto di arrivo, ma una nuova partenza o ricerca e me ne accorgo io stesso ad ogni opera che finisco, perché c’è sempre qualcosa, l’immagine, la postura o qualche semplice pennellata che mi apre un nuovo mondo pittorico e che mi fa essere “contento di non essere contento” delle mie opere spronandomi quindi a continuare.

La mia intenzione è sempre quella di dire le cose e mettere in evidenza cose che con la mia poca dialettica non so dire, e sono sempre più convinto che l’unico modo per riuscirci è creare un gioco tra figura e titolo a volte l’una felice e l’altro caustico e a volte l’una infelice e l’altro ironico. Spero di essere riuscito a farti capire qualcosa, ma d’altronde se io stesso avessi capito qualcosa di me e della mia pittura forse non avrei più ragione di dipingere.”

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