Marzo 2009


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“Ambarabà ciccì coccò
tre civette sul comò
che facevano l’amore
con la figlia del dottore
il dottore si ammalò
ambarabà ciccì coccò”

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Dal 25 Aprile al 24 Maggio 2009 il Museo di Arte Contemporanea di Nocciano sarà la sede dell’evento espositivo “SeCreAzioni: da Piero Manzoni al fallimento Lheman Brothers”.

Una rassegna di arti visive che pone l’attenzione su un filone espressivo tornato molto di moda: l’Arte Organica.

L’iniziativa prevede un piccolo omaggio a Piero Manzoni, uno dei maestri fondatori dell’Arte Concettuale in Italia, il coinvolgimento dell’artista abruzzese Angelo Colangelo, della signora Vincenza Cavalluzzi, autrice della scatoletta “Merda di fallita Lheman” resa nota dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, il quale ha anche realizzato un certificato di autenticità dell’opera e del giovane emergente Simone Ialongo selezionato per Emergenting Talents – Nuova Arte Italiana, manifestazione realizzata presso il Centro di Cultura Contemporanea a Palazzo Strozzi a Firenze.

La mostra sarà inaugurata da un dibattito in cui interverranno, per l’apparato critico la gallerista romana nonché storico dell’arte Sibilla Panerai e il direttore dello Studio 2B di Bergamo Lorenzo Boggi, mentre per la parte istituzionale il direttore del Museo di Nocciano, Ivan D’Alberto e le varie autorità politiche degli Enti locali (Comune, Provincia e Regione).

L’esposizione offre una visione piuttosto variegata su come oggi il materiale organico è utilizzato nel campo dell’arte.

Ad esempio l’artista Angelo Colangelo pone il suo interesse nei confronti della materia organica su due livelli: il corpo inteso come opera d’arte perché collocato in una dimensione spaziale e i prodotti del corpo (parti anatomiche, sangue e feci) intesi come materia prima per un’operazione artistica.

Nel primo caso Colangelo pensa all’uomo come tassello indispensabile per la narrazione delle sue visioni estreme, nel secondo caso invece, così come accadde per Manzoni, l’utilizzo di materiale organico serve per dar vita ad un’opera d’arte secondo un concepimento mitologico.

Quest’aspetto è descritto in maniera molto chiara nell’intervento intitolato “La Venere di Milo”, simbolo di perfezione e mito di bellezza. La sua realizzazione avviene utilizzando un groviglio di carni sanguinolenti sospesi in aria e posti in prossimità di una pedana. Ed è proprio la collocazione di questi brandelli che tale mito è espresso nella sua pienezza, perché l’opera d’arte diventa un monumento della carne. Con questa operazione Angelo Colangelo vuole dimostrare come la bellezza non va ricercata in canoni precostituiti, ma nell’essenza delle cose indipendentemente dal soggetto trattato.

La sezione su Piero Manzoni dovendo ripercorrere i momenti salienti della sua produzione organica riparte dal centro della sua arte: gli “Achrome”.

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http://www.angelusnovus.it/debord.htm

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http://www.artreview.com/profile/PepMinichino

Può delineare la figura professionale dell’art director?
Art director è un vocabolo che interessa diverse professionalità, è una
sorta di termine ombrello. Per quanto riguarda l’ambito pubblicitario,
la partnership spetta all’art director e al copy-writer, la coppia creativa,
in sostanza quella che partorisce un’idea di marketing.
La cosa interessante è che in diversi settori, il termine art director
individua una singola professionalità, inserita all’interno di un
organigramma ben definito; per quanto riguarda l’art director
pubblicitario esiste invece un importante legame con il copy-writer.
– Quali sono i caratteri del suo percorso formativo?
Mi sono laureato in Arte al Dams di Bologna. Il mio bagaglio culturale è
costituito non solo da materie classiche, come ad esempio storia dell’arte
antica e moderna, ma anche da argomenti che interessano la
comunicazione, la semiotica, il design, la pubblicità.
Nel mio lavoro queste conoscenze mi sono servite veramente.
– I primi contatti con un agenzia, gli inizi lavorativi. Quali suggerimenti
e consigli darebbe a un giovane?
Per entrare in agenzia bisogna essere umili; si parte dal gradino più basso,
quello dell’assistentato. Praticamente si entrava, parlo del mio periodo,
per competenza grafica; un valido illustratore, un buon fumettista veniva
assorbito dall’agenzia pubblicitaria perchè serviva per la presentazione di
storyboard, e lay-out vari. Adesso la competenza grafica è legata al
computer, è fondamentale quindi la sua conoscenza per entrare in
agenzia. Per far carriera bisogna poi avere quel qualcosa in più, bisogna
riuscire a far percepire le proprie doti, la propria forza creativa, altrimenti
si rimane assistenti a vita.
– Rispetto a vent’anni fa cos’è cambiato nel rapporto tra il fotografo e
l’agenzia?
Qualcosa sicuramente è cambiato, però la professionalità, l’apporto
creativo del fotografo, dopo tante riunioni, dopo tante parole, è sempre
fondamentale, perchè alla fine l’immagine è unica. Anche se i lay-out di
oggi sono molto definiti e il tutto sembra avere uno spazio estremamente
ben calcolato, solamente il fotografo è la persona in grado di rendere
efficace il messaggio visivo; ci sono diecimila discorsi di calibrature che
si possono fare al millimetro, però se dopo la comunicazione risulta
fredda, se la modella non ha lo sguardo recitato e sognante che si
vorrebbe, il tutto non funziona. Ed è incredibile come invece alcune
comunicazioni che, creativamente parlando, sono misere, soltanto per un
discorso di resa finale o per uno spunto imprevisto, riescano ad essere
così incisive e d’effetto.
Sono rari i casi in cui l’art director pubblicitario utilizza nomi eccellenti
della fotografia, o perche risultano ingestibili, oppure semplicemente
perchè non accettano di entrare nel gioco del pre-production meeting e
di tutto quello che ne consegue. E’ accaduto che alcuni famosi art director
siano riusciti a lavorare con nomi illustri; ricordo un vecchio collega di
McCann che lavorò in Italia con Horst per una campagna pubblicitaria
di gioielli, ma era l’unico che potesse contattarlo.
– E’ impegnativo operare con fotografi alle prime esperienze professionali?
Si, è un pò più complicato gestirli; in pratica l’art director che sceglie e
decide, deve assumersi alcune responsabilità e, nello stesso tempo, deve
anche proteggere il fotografo contattato da una certa abitudine diffusa tra
gli art buyer, quella di preferire la collaborazione con fotografi
pubblicitari, per un discorso sia di listino, sia di consegna e di standard
esecutivo. La maggior parte del nostro lavoro ha a che fare con la
mediazione, sembriamo tutti degli avvocati.
– Quali qualità possiamo individuare in un art director?
Fondamentale è avere idee creative. Da una decina d’anni l’uso del
computer nelle agenzie ha favorito la presentazione al cliente dell’idea
che si vuole realizzare: l’elaborazione di un lay-out super definito,
pienamente esaustivo, che diventa quasi esecutivo. Se non fosse per un
problema di definizione si potrebbe andare direttamente in stampa.
Di tendenza opposta sono gli Stati Uniti, dove si è ritornati a mostrare
al cliente il lay-out dei primi tempi, quello in cui c’è un disegno, una
edit-line in cui non è importante far capire qual è il lettering o lo sfondo
cromatico usato; si sta tornando all’abc, al saper rendere un’idea,
privilegiandone l’aspetto creativo.
– Qual’è un ulteriore elemento da lei ritenuto fondamentale per chi lavora
in questo campo?
La curiosità, assimilabile alla voglia di conoscere, alla disponibilità, a
l’apertura; un art director deve essenzialmente essere un voyeur. Andando
in tram, utilizzando i mezzi pubblici riesco ad osservare il tipo di persone
che leggono gli annunci pubblicitari, a comprendere a chi interessa un
certo tipo di messaggio. Voyeur significa anche continua osservazione,
intesa come necessario arricchimento del proprio bagaglio visivo.
– Un consiglio a chi domani si proporrà a un’agenzia?
Vorrei, innanzi tutto, invitare i giovani, e non soltanto loro, a importunare
il maggior numero di persone possibili, investire sugli appuntamenti,
sugli incontri. Portare molte fotografie non è indispensabile, ci si può
presentare con poche immagini, ma quelle devono essere lo specchio
della persona. L’autopromozione può servire, va fatta però nella maniera
giusta; anche consegnare la cartolina di un ultimo lavoro può essere
importante, vuol dire lasciare una traccia di sé e del proprio passaggio.
Le nostre pareti sono tappezzate di cartoline e di immagini promozionali;
a volte capita che entrando nei nostri uffici qualcuno ci chieda il nome di
un autore. Anche a me è accaduto di lavorare con il fotografo che era
passato il giorno prima.
– Che cosa si aspetta di veder emergere dalla lettura di un portfolio?
Vorrei vedere delle immagini uniche, frutto di un discorso di ricerca.
Il portfolio ideale dovrebbe contenere un cinquanta per cento di lavoro
standard e un cinquanta per cento di ricerca, in cui emerga la creatività;
non sono necessarie molte fotografie, ne bastano dieci, quindici.
Si vedono centinaia di immagini, siamo quasi alla saturazione, bastano
un paio di proposte che escano dai soliti schemi per attirare l’attenzione.
Ci sono dei lavori emotivamente più forti che colpicono. Questi mi
interessano.
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Pep Minichino “Art Director”
in PROFESSIONE FOTOGRAFO, Editrice Il Castoro, Milano, 2001

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