Maggio 2014


“I cattivi artisti copiano, quelli buoni rubano.”

Picasso

Il Centro Culturale “AFRA” presenta  “Confessioni di un Autore”, l’appuntamento letterario con Antonio Picariello e il suo libro “Comunque prima c’era”.

martedì 6 maggio, alle ore 18:00, in via Marconi, 13 

«”Comunque prima C’era” avevo scritto con un pennarello rosso sulla grande scatola che conteneva le mie lettere inesistenti. Pensieri che non ho mai spedito e che forse non ho mai scritto. Pensieri che non sono mai esistiti, ma che vivevano in qualche modo nella mia volontà di farli esistere. Senza corpo, senza materia come una folata di vento del deserto che tocca le dune e le modifica continuamente perché la sabbia lo sa e l’aria lo sa, ma nessuno dei due elementi può prevedere come diventerà l’altro, al loro incontrarsi».

 

Salvatore Russo

L’ho letto…, è un viaggio itinerante nella magia dell’arte, della natura, nell’intima spiritualità dell’essenza umana. Man mano che lo leggi capisci che non è un libro da divorare tutto d’un fiato ma gustato e razionato come l’esigua riserva d’acqua che ti porti dietro da giorni nello sconfinato deserto dell’anima alla ricerca della meta…

Giuseppe Zio

Non trovo il libro. Dove posso acquistarlo!? Mi interessa sopratutto il racconto di Grizzana Morandi, che evoca il rapporto con il grande Pittore Bolognese Giorgio Morandi. Per caso l’ho evocato, nel mio discorso alla presentazione della mostra di Vincenzo Zio e presente Picariello, fui colpito dal fatto di aver  trovato un altro estimatore del pittore che « faceva cantare la polvere ». Facemmo un bel colloquio su questo e mi colpirono le sue considerazioni di Morandi; per questo mi interessa leggerlo!

Caterina Sottile

Peppe, il libro di Antonio Picariello te lo regalo io, appena ho un attimo di tempo per procurarmelo. la mia copia ha una dedica che non darei per nulla al mondo ..

 

« Comunque prima c’era »: un libro di Antonio Picariello
E’ uno scrigno, aperto ai lettori come fosse il tesoro degli Aztechi. Ci porta a spasso nei tropici che all’arrivo ci festeggiano regalandoci pirotecnici scoppi di rosso e di verde, di ocra e di cobalto…
giovedì 11 ottobre 2007, di caterina sottile – 580 letture

« Comunque prima c’era », di Pilò, pseudonimo di Antonio Picariello.

Edito da Archetip’Art, fa parte della collana Saint Expedit, diari di arte contemporanea.

E’ uno scrigno, aperto ai lettori come fosse il tesoro degli Aztechi. Ci porta a spasso nei tropici che all’arrivo ci festeggiano regalandoci pirotecnici scoppi di rosso e di verde, di ocra e di cobalto. La luce rovente del loro sole ci impone un’andatura più consona alla lentezza del ciclo della vita. Il Tempo incombe sull’abbaglio delle macchine, moscerini nel vento che proviene dall’origine del mondo. Un libro bellissimo, a cui siamo grati di averci ricordato cos’è l’incanto: si ascolta, si guarda, si sente a pelle. L’essenza dell’umanità moderna è raccontata attraverso la bellezza di ciò che c’è ma si coglie solo attraverso l’arte. Comincia come un film, una buona, vecchia sceneggiatura di quelle che richiedono una poltrona comoda. E garbatamente, l »irruenza di una regia strabiliante si concentra sulla presa diretta di un uomo solo nella foresta dell’eremita che dovrebbe intervistare. Nel monologo di un uomo che parla a se stesso ci avvolge l’odore di libri e di inchiostro. La letteratura sboccia come le orchidee tropicali e invade ogni parte di noi. Breve e profondo, come uno specchio d’acqua, ricongiunge due parti di un mosaico danneggiato: l’Oriente e l’Occidente. Due racconti, CREOLI e GRIZZANA MORANDI, che scavano il confine tra due mondi. Nella linea che segna quella separazione traumatica c’è il vuoto della coscienza e della scienza. Il buco nero dentro cui precipitano le risposte che non si possono dare. Il bisogno d’amore a Saint Pierre de la Rèunion (Creoli) è sogno e silenzio; esplosione di profumo di vaniglia e natura arrogante che ingoia l’uomo incompiuto e ne riscopre l’animale perfetto. Nell’isola di Rèunion la natura è arte e la bellezza è contemplazione, nella fragranza della sua pulsione eterna. E nella lentezza di una modernità estranea i riti antichi della terra e del mare non devono temere l’interruzione del frastuono del nuovo. Il bisogno di sentire il proprio cuore che batte, lì si appaga stringendo la mano del maestro, « il curatore »: saggio, elegante, paziente indiano seduto sul mondo che cambia ma senza temerne la foga. La sua pelle bruna ha assorbito le radiazioni ancestrali dell’alba della terra e tutto attorno è solo frescura della sera. Perché le risposte non date non lasciano il dubbio, ma lo leniscono. Creoli è un magnifico dipinto di passione e sapere; un racconto che emerge, come Citerea dal mare, in una tempesta di altre letture e di altre parole, pensate, perse, amate: « In me c’è qualcuno che crea le parole che io pronuncio ». Il viaggio che porta via dall’Africa continua ad avere profumo di pelle bruna e di incenso del Tempio. E l’inquietudine dello spirito dell’isola si incarna nella forza travolgente di un uragano che ha il « nome di una bella creola ». Ma è solo il nome con cui chiamare la nostalgia del ventre della madre terra. Via via che l’Occidente appare all’orizzonte, tra le nuvole di una traiettoria tra cielo e terra, tra essere e avere, tra l’io e l’es, i tumulti dell’anima hanno bisogno di essere catalogati e archiviati da una conoscenza che non conosce tutto e che chiama il bisogno di amore: malattia. Il volo di ritorno a Occidente è il purgatorio in cui si rimane sospesi, tra il rimpianto cruento di una carnalità che è percezione del mondo visibile e di quello che non vediamo, ma che vede noi. I profumi di terra viva stordiscono ma ricompongono le schegge dei dolori nell’armonia della resa. A Bologna la Dotta, il bisogno d’amore ridiventa: male di vivere.(Grizzana Morandi) La scienza d’Occidente non sa più decodificare la paura dell’immanenza della vita e rimuove come una patologia la fragilità, nella lotta uomo-natura. Nel corridoio di una clinica italiana che conduce lontano dal proprio bisogno d’amore, ciò che non è noto, non è ovvio, è solitudine e assenza. Un solo bisogno, sempre lo stesso, e due modi di appagarlo: l’accettazione o la rimozione, la forza rassicurante di ciò che non deve essere compreso o il disagio disturbante di non potersi permettere spazi inesplorati. « Comunque prima c’era » è una canzone a due voci, tra l’ossigeno e l’acqua, la scienza e l’essenza. Ed è una canzone che diventa « Urlo » quando il bisogno d’amore edulcora l’ossigeno e l’acqua con l’alcool, demone abbordabile, in assenza di dei e di cielo. La spiritualità, nell’Oriente immobile, è memoria di percorsi complessi e anche i demoni maligni pretendono la battaglia dei sensi. A Occidente la mancanza di quella memoria genera dolore, senza le ferite del coraggio. Ma lungo la linea del vuoto irrompe l’arte e riaggrega lo spirito e la carne, molecole nell’acqua dell’esistenza. Un libro che si legge arrampicandosi lungo le salite, ora riottose ora morbide, di una scrittura plastica, addomesticata dallo spazio, come la facciata di una cattedrale barocca. Da Creoli a Grizzana Morandi c’è il viaggio di un aereo che vola sul confine delle conoscenze umane. Antonio Picariello non può fare a meno di se stesso: questo libro è un dipinto che contiene tutti i pittori del mondo. Creoli è un racconto luminoso e brulicante, sanguigno come un quadro di Picasso; Grizzana Morandi è un dolore oscuro con potenti indizi di luce. E’ Caravaggio. E su tutto, l’immanente profumo della terra che partorisce i suoi figli, generati per amore soltanto.

LO SCRITTORE DEI CICLONI

Michele Tuono

A

ntonio Picariello introduce questo suo racconto con una massima che ne fornisce allo stesso tempo la più precisa illustrazione: « Ci sono luoghi dove il linguaggio sublime parla silenzioso al destino delle persone ».
Racconto meraviglioso, perché in nessun altro modo è possibile definire lo stupore di un evento straordinario e inatteso, e l’ammirazione per la sua bellezza.
Inatteso, solo perché si conosceva l’autore come critico d’arte di primo piano, e scrittore a volute ampie e multiformi, ma anche di estrema complessità, quanto a ricchezza di significati, per chi non ne scoprisse il codice esatto, la cifra, e non se ne vedesse svelate, alla fine, le linee così apertamente logiche.
Non ridotta, ma regolata dalle leggi del racconto, quasi domata, come si può domare qualcosa di potente e ricondurlo a un ordine, la scrittura di Picariello risalta in tutta la sua elastica vitalità, prendendo le forme multiple della cultura creola alla quale il racconto, come un saggio di antropologia romantica, è dedicato.
Così non meraviglia che come primo nome, nello svilupparsi di quello che è un ben preciso progetto, si incontri Marvin Harris, antropologo controverso, scrittore di cannibali, di sacrifici cruenti, sintetizzati nell’immagine delle migliaia di teschi che ornavano le piazze e i templi delle città azteche.
Ed è anche la prima delle inserzioni realistiche che sostengono come strutture una creazione che ha i ritmi e la fluidità di un lungo sogno. Da Londra, Salisbury, le rovine megalitiche di Stonehenge, all’isola di Réunion, oltre Zanzibar, il Madagascar, dove l’Africa si perde nell’oceano Indiano.
Avamposto della Compagnia delle Indie con i suoi mercati di spezie, di rum, di vaniglia.

Al Barachois, sulla piattaforma di cemento che ricorda il vecchio attracco portuale della Compagnia delle Indie, smantellato negli anni cinquanta dopo i danni di un ciclone, c’è un cerchio in ceramica che contiene il disegno di una stella che indica la posizione geografica del resto del mondo partendo da quel punto. A sinistra l’Africa, Dakar, Kenya, Johannesburg. Davanti Marsiglia e a destra Calcutta Bombay Sydney.

Alle spalle del protagonista, una ragazza dalle gambe spezzate…

Ero dispiaciuto di non aver più dato mie notizie. Qualcuno mi aveva fatto sapere di lei. Dicevo che non ero riuscito a rimuovere l’immagine dello scontro tra le automobili e delle sue gambe spezzate. Le stesse che i medici inglesi le avevano poi rovinato senza rimedio;

in quella gita a Stonehenge,

un dolce giardino del sole, un circolo di steli che formano una corolla eliotropica  fissata nel culto e nella preghiera di divinità cosmiche inchiodate nel riflesso della propria immagine respirata dalla pietra e dagli uomini. Ho alzato la testa dal sedile ed ho visto l’anfiteatro celtico venirmi incontro.

Immagine che poi si concretizza in angoscia sottile, che riaffiora (« La mia assicurazione dice che non vuol pagare tutti i danni che ho provocato »), a punteggiare il soggiorno nell’isola tropicale e policroma, fra « indiani, cinesi, malbaresch, cafri, petits blancs. Tutti sotto la denominazione di creoli, basta siano nati qui ».
E nell’atmosfera accaldata e dolciastra dei tropici, tra i rapidi accessi di febbre, si liberano certe « forze mitiche dell’inconscio », come le definiva Alfredo Giuliani.
Forze che vengono « alla luce per rapidi scorci, per improvvise illuminazioni ».
Si alternano a un realismo che si fa vivo nella ossessiva sistematicità dei gesti, nel funzionario di polizia che scrive

con due dita cercando le lettere una per volta. Con regolarità alza la testa domandando il seguito della storia. Riflette, arrotola la punta dei baffi e riprende la battitura. Con lentezza e tranquillità rimette le mani sulla tastiera, guarda le lettere disegnate sui bottoni bianchi, alcune le enuncia ad alta voce come per farle apparire, altre quando le ha scovate, le conferma con un « ah! Eccoti qui… » poi riprende a domandarci la storia ricominciando sempre dall’inizio;

nella ragazza che

mima una scena. Racconta con i gesti cosa è avvenuto. Costruisce con le mani, virtualmente, una catasta di legna, finge di mettere i tronchi uno sopra l’altro come a formare una pira, poi segna il filo di una corda e ripassa, con la mano, il senso dello scorrimento in quella reale del filo. Dalla parte del tronco crea la forma di un cappio, dall’altra parte, verso l’estremità del ramo, nel punto opposto della corda, pone un enorme masso. Con un dito segna il passaggio come di una cucitura della corda nei binari delle carrucole;

o nella signora francese che

si riduce fino ad entrare nella vettura lanciando nell’aria il gesto netto della portiera che sbatte e si chiude sigillando tra i vetri l’espressione di rabbia che avvia il motore e si allontana nel traffico.

Segno probabile, o inconscio, di un esotico che potrebbe essere di Joseph von Sternberg, o di Orson Welles, tra Marocco, Macao, Shangai, con le movenze di Marlene Dietrich, o di un trafficante americano di gioielli. Un Robert Mitchum in « giacca bianca » e « pantaloni di cotone », « un cappello bianco con una striscia di raso », sotto l’elica del ventilatore che « soffre nel tagliare » tutta quella « massa di calura tropicale. Ad ogni giro del ventilatore le pale emettono uno stridio come di ferri vecchi che si toccano ».
Così come altrove (i libri, le torri di carta, la biblioteca) si presenta il riverbero di un altro cantore dei criollos

Ho scoperto il criterio e quello che mi era sembrato disordine improvvisamente si è rivelato l’ordine più conveniente. I fogli e i libri sono accumulati per argomenti e disposti, nello spazio limitato della stanza, per zone. I fascicoli hanno un ordine temporale che permette un modo d’uso spicciolo ed economico; le letture o gli appunti più recenti restano in alto della pila e quanto più vicine sono le torri di carta tanto più gli argomenti si accostano. È una biblioteca verticale che si sviluppa in altezza e non potrebbe fare in altro modo perché la vita quotidiana, nutrirsi, riposarsi e proteggersi, ne fanno parte.
Disegno su un foglio la mappa della biblioteca, alla fine ho tra le mani un’immagine strana che ricorda una faccia quadrata riempita di cicatrici che si chiamano: filosofia, teologia, astrologia, storia, geografia, astronomia…

I

l protagonista, sull’isola, si arrangia a fare il giornalista, in francese, per un caporedattore che « porta una calotta di metallo nella testa per il proiettile che lo ha colpito mentre seguiva in diretta i rapinatori di una banca ».
Inviato per una improbabile intervista a un eremita, si trova ad abitare la sua casa, e poco a poco l’eremita si impossessa di lui, gli fa consumare le sue droghe, amare le sue donne…

Adesso l’effetto delle foglie che ho ingoiato è diventato potente. Cado inerme nelle braccia della ragazza che inizia a cullarmi emettendo un suono vocale simile ad un mantra, un organo continuo che suona come la voce del vento nei bambù. È una voce soave di femmina, la voce immortale della grande madre che posso ascoltare come fosse un suono che circola intorno alle molecole dell’aria.

celebrare i suoi riti crudeli…

L’Arloy nelle mani del tamoule traccia la parabola del sole che decolla la capra.
« Sei tu in quel ritratto ti riconosci? »

Rito che si conosceva dall’inizio del racconto, che così viene a chiudersi come in un anello.

Si chiama harloy, dice l’indù con un tono di voce più determinato e una postura più formale. Il taglio deve essere netto con un movimento delle braccia che disegnano la parabola del sole. La testa delle capra resta nelle mani di un fedele mentre il corpo cade dalla parte opposta. L’harloy si ricava dalle balestre dei camion, ha una lama di sessantasette centimetri e un manico di legno di tamarì.

È uno sfogo visionario, è « la vita che si compone e si nutre dai frammenti delleimmagini, dalla loro necessità di esistere come fantasmi ciechi », sono « allucinazioni che trascinano per piacere verso strane geografie, luoghi fatali e attrattivi, sconosciuti e non inquietanti », con « l’ombra del ciclone distruttivo »- scrive il poeta Umberto Cerio nella bella nota introduttiva – che incombe. E mentre « Amore è il nome dello schiavo réunionese che fecondò le belle piante della vaniglia », i cicloni

hanno nomi affabili e sensuali: Cecilia, Désirée, Sofì. Gli dico che deve essere un orgoglioso privilegio poter battezzare un ciclone. Mi risponde con un racconto che narra di un suo parente che lavora al centro di metereologìa. Tre anni prima aveva dato il nome della sua secondogenita ad un ciclone che devastò tutta l’isola, fu una catastrofe. Sua nipote è una bambina molto bella che incanta quando la si guarda, ma quel ciclone distrusse ogni cosa e l’anima della gente creola si seccò come si seccano le belle mele quando arriva la siccità e la carestia. Dice che il suo parente ama la famiglia e le piante e quando si accorse che il suo giardino era distrutto e la sua casa divelta, guardò negli occhi sua figlia e non riuscì più a pronunciarne il nome.

Finché tutto si interrompe, senza ragione e senza logica, proprio come i sogni. « Sorvolo con un 747 l’Oceano Indiano. Rientro in Italia ».
…………………….

analisi sapiente di un libro eccezionale complimenti ad entrambi

 

Uno dei post più belli, peccato che sia fagocitato da altre discussioni, oltremodo superflue. Bravo Tuono, bravissimo Antonio Picariello che ci ha fatto questa piacevole sorpresa.

utente anonimo

 

Non conoscevo questo libro di Picariello. Dalle citazioni fatte da Tuono, così mirabilmente inquadrate nel discorso, si capisce che si tratta di un testo eccezionale. Mi associo ai complimenti di chi mi ha preceduto.

utente anonimo

 

Sai, Miché, leggere il sogno di un uomo che conosco bene, accompagnata da Cavalli Sanniti, mi provoca una sensazione afona. Proprio come accade nei sogni. Questo racconto é un gioco di prestigio di un critico-artista che dirige la sceneggiatura di un film-racconto. La letteratura ha la morbidezza plastica della pittura. E’ realismo, ma pittorico. Come se Picariello non volesse rinunciare alla separazioni dei ruoli: le parole invece della tela. « Le parole dei vecchi che calibrano frasi asmatiche per negoziare memoria e mercato…. » Questo é dipingere! E fotografare. Ci sono le estati torride e polverose degli scrittori americani del Novecento, « scesi » a sud del mondo come Barbari civili e raffinati. C’é Malaparte e c’è Goethe e c’è un viaggio che non deve andare, ma tornare. E poi c’è il cinema, come un presagio di arte mutante, in « fermentazione ». Un racconto che si lascia « bere » ennesima delle infinite birre nella calura del sud, mondo a rallentatore. Leggerlo é come avere in mano una telecamera e zummare dove sentiamo il richiamo delle cose che sapevamo, o che non avevamo saputo dire.

 

 

Si dovrebbe scrivere una recensione della recensione, che insieme evoca e spiega, da esperto artigiano.

« ……si conosceva l’autore come critico d’arte di primo piano, e scrittore a volute ampie e multiformi, ma anche di estrema complessità, quanto a ricchezza di significati, per chi non ne scoprisse il codice esatto, la cifra, e non se ne vedesse svelate, alla fine, le linee così apertamente logiche.
Non ridotta, ma regolata dalle leggi del racconto, quasi domata, come si può domare qualcosa di potente e ricondurlo a un ordine, la scrittura di Picariello risalta in tutta la sua elastica vitalità, prendendo le forme multiple della cultura creola alla quale il racconto, come un saggio di antropologia romantica, è dedicato. »

Qui secondo me c’è tutto Picariello.

utente anonimo

Frequento questo blog da sei mesi. Mai e poi mai mi sarei aspettato che Michele si spingesse così avanti.
In attesa di leggere il libro concordo con il commento #3: un taglio che disegna la parabola del sole, pietre che formano una corolla eliotropica, un caporedattore che « porta una calotta di metallo nella testa per il proiettile che lo ha colpito mentre seguiva in diretta i rapinatori di una banca », il ciclone che incombe… E ancora più con il commento #4: « il richiamo delle cose che sapevamo, o che non avevamo saputo dire ».

 

complimenti per la magnifica analisi di un bellissimo libro che conoscevo già. aggiungerei che si potrebbe definire « meraviglioso » ed emozionante anche il secondo racconto dello stesso libro di Picariello dove, con linguaggio altrettanto sublime, parlano altri luoghi ed altri oggetti meno esotici, ma solo apparentemente meno affascinanti: una piccola stazione di un paesino fra gli appennini, una « splendida fontana circolare minuta, come una coppa di cemento », nel cortile di una clinica, la strada che porta verso « l’ acqua del demonio » di una nota stazione termale…

utente anonimo

Avete fatto ritrovare un po’ di fiducia nella cultura molisana « vera », e mi piacerebbe molto che se ne discutesse qui. Intanto, grazie.

utente anonimo

« Un mondo variegato, storie raccontate di donne che sono passate in punta di piedi nei secoli vivendo, tuttavia, con ardore, intelligenza e creatività la loro epoca ».

Ora, il giornalista è al corrente – giacchè ne ha dato l’elenco – che tra le 40 donne « raccontate » nel libro ci sono brigantesse efferate, nonché la famosa « badessa », suor Giulia de Marco di Sepino, presso la quale la monaca di Monza poteva tranquillamente andare a lezione per perfezionare il « mestiere ». Ciò nonostante, Amoroso scrive di donne che « sono passate in punta di piedi nei secoli » e ne loda l’ardore, l’intelligenza e la creatività, lasciando nel lettore l’impressione che da noi si scriva solo perché esistono le parole, le si conosce e si è in grado di allinearle in qualche modo sulla pagina.

 

…un esotico che potrebbe essere di Joseph von Sternberg, o di Orson Welles, tra Marocco, Macao, Shangai…

Ho trovato una copia di « Shanghai Gesture », di von Stenberg, su VHS. Favoloso.

– Di cultura, a mio parere, non si discute.
La cultura – ammesso che sia quello il termine giusto – si fa.
Scrivendo bei libri, dipingendo bei quadri, e, se possibile, anche realizzando buoni blog, per contenuti, qualità grafica, gusto ecc.
Questo escluso, s’intende.

Shanghai Gesture, un capolavoro, sono d’accordo.
La protagonista era Ona Munson, che sarà Belle (la prostituta), in Via col vento.
Di tendenze lesbiche, mai celate, Ona Manson sarà l’amante della bellissima Tallulah Bankhead.
Poi il maccartismo americano la metterà nella lista nera, le darà la caccia, fino a farla ammalare, e quindi suicidare.

 

 

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