Sab 25 Ago 2012
I politi e i critici sono cani da tartufo
Quando finalmente ritrova il suo amico lo trova in preda a una grottesca ossessione: ha ripreso centinaia di ore di pellicola della città di Lisbona, puntando la macchina dietro le spalle per non vedere le immagini mentre gira. È arrivato alla conclusione che l’occhio del fotografo rovina le immagini, le rende false e contaminate.
È così In questo modo c’è la possibilità di un minimo di comprensione di quanto stia accadendo al nostro sistema storico contemporaneo. La critica ha perso il suo senso e resta solo un alone sporco di un ruolo e di una funzione che in passato ha costruito, nel bene e nel male, livelli di società qualificate. La mancanza del giudizio di valore apre solo il diaframma sull’inquadratura di giovani personaggi capaci di adoperarsi male, privi di etica e di principi costruttivi, anche ideologici che comunque anche negli anni di piombo fungevano da strumento riflessivo e analitico per il divenire, e che nel qui e ora, se esiste ancora o ancora si può usare una banalità intercalante della lingua con questi suoni, se applicati a una regione a totalitarismo provinciale senza coscienza scientifica, o appagante sul filo di una limitata conoscenza della storia dell’arte, crea danno irreversibile a cui nessun dio, monocratico o diffuso, può rimediare. Siamo a dire un territorio che ha storia agricola come etnoantropologia richiede, fabbricato di conoscenze fuori dal pensiero astratto che è entità capace di elevare il senso di vita ai valori della progettualità e dello spirito che necessariamente il progetto veicola. Sono questi luoghi carichi di genius loci potenti nell’agire o nel far agire, ma mancanti totalmente dell’archivio evolutivo scatenato dal ‘900 con la immissione lacerante nel sistema accademico della psicologia o di quella disciplina che accosta e modella l’antica maniera classica di disputare, dall’ellenico in su, punti di vista analitici attraverso le filosofie e i pensatori di ogni epoca e tempo.
Un territorio arcaico sventrato d’improvviso dall’impatto scellerato dei mass media ha folgorato le menti abituate al linguaggio strutturalista popolare. Le città di dimensioni minute gestite alla paesana bene descritti nel secolo scorso da Silone o da Guareschi con i sindaci e le giunte a volte i consigli, sciorinati nelle strade o nei bar in “metissage” con la vita comune a bere birra o a infervorarsi d’opinioni sportive. Il sindaco di paese amministra al pari della modalità con cui le comari scambiano pareri e informazioni. Si sa tutto di tutti, a volte meglio e con più scientificità informativa degli stessi protagonisti. Si sa in sotteso alle informazioni giornalistiche che arrivano alla notizia solo a stadio finale o all’effetto scatenato da causali che tutti sanno come archivio perfetto del silenzio paesano, del gesto ammiccante come nelle partite di tressette tra compagni di azione e di parte. Il resto, il successivo, la notizia appunto, è solo diretta conseguenza delle ipotesi discusse e digerite dalla comunità silenziosa. Si sa tutto di tutti anche nell’era della nanotecnologia o di internet che spesso viene usato dagli utenti in maniera selvaggia e senza codici funzionali al legante comportamentale comunitario. Mancano le regole del buon senso perché nessuno, compito essenziale della politica mancata, si è preoccupato di anticiparle con la responsabilità preveggente di poter unire tecno e sociale nella sua giusta misura evolutiva tanto da permettere una crescita osmotica e pedagogica tra innovazione tecnologica e modo d’uso, diffuso alla pari nella società. È il senso del servizio alla collettività che nei territori delle comari risulta storicamente inviso e straniero per non dire straniante, a questo modello. Lavorare di critica in questi depositi dell’azione imposta non è, come è prevedibile da chiunque, molto facile. Anzi si potrebbe commisurare un paragone figurativo con la dimensione missionaria in campo teologico eseguita da quegli uomini di fede che all’inizio dell’era della ragione si votavano al recupero ecumenico delle anime sparse sul pianeta. Si potrebbe pensare si stia parlando di una regione tipica italiana, una regione come il Molise o la val d’Aosta che è a statuto speciale ma legata dal regime storico al resto fatale delle altre componenti nazionali; le altre regioni italiane. Si sta parlando invece della nazione. Si parla dell’Italia. L’Italia roussoniana fatta di Emilio e di buoni selvaggi che si contrappongono alla mentalità vichinga napoleonica e austroungarica. Qui Voltaire non è mai passato né è transitato Goethe solo qualche assessore alla culutra che ha il dono innato del sapere e che a ogni evento si presenta con il fiuto del cane ad annusare convenienze e avvicinamenti che porteranno la consolidata posizione degli undicimila euro al mese nella durata più lunga possibile. Cosa importa se il critico o l’artista sono di marca genuina, se il critico ha nelle ossa la storia dell’arte romana ed ha impiccato al chiodo l’estetica e la scienza ancor meno l’etnologia e la sociologia. Cosa importa all’assessore o al presidente se la sua società è soggetta a usura millantazione e morte. Finché dura, fin quando ci saranno missionari a fare da capri espiatori come insegna il giovane jean clair che pure deriva da una famiglia di agricoltori, la vita continua e se non per gli altri almeno per me che non ho studiato ma conosco bene il tressette e le comari di montagna. Ottimo cane da tartufo che qui cresce nei giardini patronali….
Leave a Reply
You must be logged in to post a comment.