Alla fine del Cinquecento, a contrastare la veemenza manieristica dei colori pastosi e morbidissimi, ai limiti del seducente, sensuale morbosità, nasce una pittura più intima, capace di recuperare il classicismo raffaellesco e carraccesco, in un’atmosfera di quotidiana tranquillità. Scorre lucido e attento lo sguardo sulle figure dei santi, sulla luce e soprattutto sull’ombra che si posano a definire allusivamente oggetti, panneggi, colonne e membrature architettoniche; scorre lieve a scrutare i paesaggi immersi nella penombra, squarci di personaggi, come messi in posa davanti ad un obiettivo ideale. Si dispongono nello spazio figure sacre, lontane e accostanti nello stesso tempo: lontane nella maestà classicamente impostata; accostanti nell’apparenza di vero in cui le figure si stagliano.

Questo particolare tipo di cultura figurativa viene elaborato sviluppando un processo compositivo non sempre rettilineo ed univoco, a volte contraddittorio, con scarti, ripensamenti e ritorni, accelerando o frenando a seconda delle sollecitazioni dell’ambiente, come capita sovente ai pittori di genio.

Il gioco cromatico e della luce divina che squarcia il cielo nel permettere, quasi a visione, di contemplare il divino e il mistero, lambisce il volto dei personaggi, che nelle rappresentazioni leviga i volti di luce estatica: linguaggio dai luccichii fiamminghi addolciti dalla pastosa cromia di tipo veneto. Riconoscere a Teodoro D’Errico una singolare maniera, frutto di geniale sintesi tra cultura rinascimentale nell’impostazio- ne degli sfondi, elaborando una personale variante compositiva, che continuerà a proporre, con una originale continuità di linguaggio, per tutto l’arco della sua carriera, lo rendono maestro indiscusso ed unico del suo periodo.

Montorio nei Frentani

Nella nota che il Comune traccia sui cenni storici della cittadina del Basso Molise è da rilevare che le radici dell’insediamento affondano nell’alto medioevo. Dopo le invasioni barbariche si riscontra un  sito di agglomerato abitativo intorno ad un castello e ad una chiesa, che fungeva da vedetta. Atti di importanza storica furono la conquista di Montorio nel 1462, da parte di Ferrante D’Aragona, e la presenza di una comunità di profughi Greci-albanesi scappati dalla invasione Ottomana (XIV–XVsec.). La costruzione delle cappelle dell’Annunziata, di S. Caterina d’Alessandria, dei SS. Marco e Lazzaro risale al XVI secolo. La Parrocchiale, dedicata all’Assunta, si rifà al XVII sec. sull’area della chiesa medievale. Le due tele del D’Errico, L’Annunciazione e l’Assunta sono custodite in essa. Gli arredi della chiesa settecentesca dell’Assunta sono di particolare interesse artistico: l’altare, in marmo policromo, custodisce le reliquie di S. Costanzo, il coro ligneo in noce, l’organo a canne a mantice del 1779.

L’Annunciazione

La pittura del D’Errico è fatta di armonia, proporzione, decoro, misura, che rendono un percorso di un virtuosismo manieristico nella composizione figurativa. Troviamo in una lettura attenta, compostezza, ordine e armonia. La composizione non è complessa, ma essenziale e sfocia nel particolarismo. Potrei definire le opere molisane del D’Errico il periodo della completa maturità; in sintesi, la sua maniera è trasfigurazione della realtà e l’istante è colto quale attimo passionale nella emotività espressiva dai moti interiori raccontati nel gesto, sì da coinvolgere il fruitore dell’opera in estatica contemplazione. La sua pittura è un “genere”, che innegabilmente dà fondamento alle correnti che emergeranno in tutto il secolo ormai aperto, il ‘600.

Linee di fuga, movimento concitato, linea trasversale, effetto della luce, questo l’immaginario compositivo dell’Annunciazione di Montorio.

Il tema iconografico è incentrato nell’attimo dell’annuncio e racchiude “…eccomi, sì faccia…” quale risposta che comunica turbamento e stupore. La torsione della Vergine, quasi un accasciarsi in flessione, il volto in linea con quello dell’Angelo, le mani allargate all’altez- za del petto, il manto che scivola prolungando un movimento di scatto con resa capillare del particolare, che in termini prospettici risulta falsato. La luce scivola dalla sinistra dello spettatore, tipica della pittura fiamminga, con il graduale passaggio da tonalità luminose a timbri che esaltano la resa materica degli oggetti. Il rosso con le sfumature dal carminio all’arancio, dal sensualissimo incarnato ai verdi che incorniciano con tonalità fredda dando risalto alle forme corporee. Il braccio destro dell’Angelo proiettato verso l’alto crea una linea che accompagna lo scivolare della luce sul corpo della Vergine fino a posarsi sullo scanno sul cui ripiano sbozza la pagina di libro aperto. Languido l’Angelo dal corpo tornito e ben disegnato nella muscolatura e dai capelli ramati si protende, vibrato nell’aria, verso la Vergine; il fruscio delle vesti, la coscia ostentata, i calzari attirano lo sguardo su memorie di messaggeri pagani, di dei già osservati in assemblaggi classici. Dal buio dello sfondo, in penombra si nota un cubicolo dalla tenda scostata ed una finestra che già annunzia il crepuscolo, poiché con la notte che s’avanza si attende l’aurora. I particolari del cesto con gli strumenti del lavoro femminile, rocchetto, forbici, panni di lino piegati e già ricamati, la sedia impagliata spostata all’indietro, rende l’attimo eterno. In primo piano sulla sinistra un’anfora con un giglio fiorito prelude al biancore della donna nuova che ha operato l’ingresso della vita di Dio nella storia. La Colomba, racchiusa nella sua luce, sembra abbozzare che la donna-tenda, ora è adombrata dalla forza generante di Dio.

Jacobucci