Lun 19 Mag 2014
DOLMEN
Ho assistito allo spettacolo della scuola teatrale di Nicola Macolino e ho pensato alle parole di Klemens Gruber scritte ne –L’Avanguardia inaudita, comunicazione e strategia nei movimenti degli anni Settanta – “ C’è un altro morto nel Labirinto dell’avanguardia : Artaud […] Come Majakovskij anche Artaud ha vissuto la sua sconfitta. E, nello stesso modo in cui il collettivo bolognese tenta di interpretare il suicidio di Majakovskij, cerca di decifrare la lenta morte di Artaud come l’incarnazione di quell’emarginazione e isolamento a cui l’artista fu sottoposto per aver fatto proprio in modo eccessivo il progetto dell’avanguardia e averlo perseguito con coerenza, decisione e radicalità esistenziale”. DOLMEN è il titolo dello spettacolo/performance del collettivo artistico Abraxas Lab che prende spunto da un lavoro musicale dei “Meredith Monk”, ovvero un avanguardista contemporaneo chiamato attraverso una semantica dei nomi degli indiani di America : “esteso tecnica vocale” e “performance interdisciplinare”. Perché Monk crea, inventa opere polisemantiche, poliedriche che uniscono equilibratamente, attraverso un suo proprio linguaggio sinestetico, musica e movimento, immagine e oggetto, luce e suono, per formulare nuovi tentativi di scoperta di nuove modalità di percezione biologica in una contestualità in cui l’emittenza è a prevalenza delle macchine digitali e meccaniche. Così DOLMEN, che nella storia dell’antropologia definisce un tipo di tomba preistorica a camera singola e la storia dell’architettura lo valorizza come il più noto tra i monumenti megalitici, attraverso l’esperienza educativa teatrale della scuola di Macolino diventa connettore di ideazione tra origine e contemporaneità innescando una miscela micidiale di cori e movimenti, musica viscerale, intreccio tra danza e teatro.
Dal più piccolo di Abraxas Lab, alle prese con un pesante macigno da trascinare, metafora dei pesi invisibili che l’uomo si trascina nell’animo, si dipana una trama vorticosa fatta di grida disperate e liberatorie, gesti scomposti di membra eccitate, tutto inserito in una costruzione apparentemente casuale ma che è studiata fin nei più piccoli particolari. Un’invocazione sacra con dei movimenti che rimandano alla ritualità religiosa che sconfina nel profano con un appello a sconosciute energie primordiali, il ricorso come unico elemento scenico ad uno dei simboli del legame inossidabile dell’uomo con la terra, la pietra. In un contesto sociale che si spinge affannosamente verso il razionale, il prevedibile, con la presunzione di tracciare percorsi di vita standard dove limitarsi a scegliere tra soluzioni preconfezionate ed accettate, a tutto discapito della creatività e della fantasia”. Personalmente ritengo questo deve essere il lavoro del regista; una missione che come le avanguardie di Artaud e Majakovskij riprendano il senso della missione proferita dal critico Giovanni Battista Cavalcaselle considerato il fondatore della moderna critica dell’arte che riteneva la provincia il luogo di nascita delle avanguardie. Il senso complessivo dello spettacolo induce a riflettere come i cicli evolutivi ritornino sempre su se stessi a modello della parabola solare archetipo delle costruzioni scientifiche umane. Dal Dolmen alla contenzione fibonacciana della prospettiva, la sezione aurea che Euclide nel libro II degli Elementi racconta in questo modo: “Si può dire che una linea retta sia stata divisa secondo la proporzione estrema e media quando l’intera linea sta alla parte maggiore così come la maggiore sta alla minore”. Scuola eccellente, carica di forza femminile e di gioventù adolescenziale che portano lo spettatore a sentirsi elemento attivo del mondo. Antonio Picariello
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