NORI IRTo

RACCONTI

Il Ragù.

C’è la fase preliminare in cui un trito di sedano, cipolla, carota, profumati blandamente di aglio,  soffriggono.

Il fuoco è leggero, iniziale, giusto per riscaldarsi.

Poi, quando sono stati rilasciati gli umori, c’è l’accoppiamento con la carne.

Si gozzoviglia nel torbido.

Un po’ di alcool  tempra maggiormente il risultato.

La carne  stordisce. Le si fa sentire il fuoco fortemente e si  lascia al colpo finale  l’eccesso.

Si osserva  e quando, spiandola,  si vede che freme, si può stare certi che è pronta  a ricevere il pomodoro, per accoglierlo e donarsi, elargendo il possibile.

Dopodiché bisogna chiuderli da soli, rispettando una necessaria privacy (leggesi coperchio).

Abbassare il fuoco  perché non ce n’è più bisogno e  lasciarli in pace per almeno 2 ore.

” Ricorda figliola, solo un amoreggiamento che parta da una simile durata, può generare risultati soddisfacenti.”

 

 

Il Guardiano della Porta

 

Il Mostro è segno del Sacro. Lo si trova  all’Ingresso del Paradiso, vicino all’Albero della Vita,  o accanto alla Fontana della Gioventù.

 

Un graduale primo piano mostra un Volto Maschile con capelli brizzolati e rughe. Suggeriscono una forte Personalità al servizio di un’ altrettanto forte Indole Interiore.

Gli Occhi Femminili tentennano. Vacillano alla sua vista.

Una musica di Bregovic  scioglie l’anima.

La Musica rende l’umanità più paziente e più dolce. Non è né morale , né immorale e concede di far spazio tanto alla ribellione quanto all’obbedienza.

La Mente Femminile decide per l’ultima.

Meravigliosa ignoranza riflessa nei suoi occhi!

L’Occhio Maschile la vede e se ne compiace.

Tagliente e mai insicuro, cova sotto la brace gli istinti più arditi: quelli che Lei  teme e attende.

Lo lascia Libero quindi di spadroneggiare e da questa nuova posizione Lo osserva.

“ Accendimi una sigaretta” Le ordina.

Il Comando non passa inosservato  e Le attiva una Riflessione:

“ Si sta impossessando dei miei servigi.”

Le piace  molto che Lui lo faccia.  Lei fa finta di niente ed esegue.

La Voce è di nuovo un comando.

Le intima di sedersi sullo sgabello.

L’Uomo che parla  non ha bisogno di spiegare la necessità di spogliarsi di ogni pregiudizio. La stabilisce col Tono.

La Donna che ascolta, in bilico fra il  Rigore Massimo e Concessioni Vaghe, scopre il valore  liberatorio della Pro-Vocazione.

E si sente affrancata da ragioni impotenti, in quanto incapaci di imprimerle un Fermo.

Non è affatto vero che piacere e dolore debbano per forza contraddirsi. Che dove sia l’uno, l’altro debba necessariamente farsi da parte.

Accorgersene è un Lampo,  un Movimento Purissimo.

Un cambio di vedute istantaneo, un  modo diverso di collegarsi all’Altro.

Situazioni prima scialbe, risplendono all’improvviso e una luce sfolgorante sbriciola nell’aria qualcosa che solo un momento prima si mostrava solido.

I lati refrattari ad eseguire fino in fondo un Ordine, inciampano. Si ritirano, scorgendo in fondo un Vantaggio: quello che dà vita a sempre nuove direzioni e possibilità d’esperienza.

Chi Sente veramente, è interessato innanzitutto al materiale umano e solo in un secondo tempo alla sperimentazione.

L’Uomo , invece, cerca non tanto uno stile, quanto un contenuto nuovo. La Sua Maestria consiste nel carpire la natura di chi  gli è di fronte e ricavarne Tutto Ciò di cui è capace. Oltrepassando  i limiti fittizi.

Guarda fisso nei suoi occhi e non nasconde la Sua Sete.

L’Uomo che ordina,con una manovra galante ma decisa la sospinge verso la poltrona.

La Donna capisce chiaramente che la sua galanteria non è attendibile.

E’ solo un cacciatore sicuro della sua tattica ora che la preda è disorientata.

Gioca con lei prima di banchettare ancora.

Come si può rinunciare ad un lusso simile?

La Donna che cerca di divincolarsi è afferrata per i capelli.

La stessa voce Le ordina di guardarlo. Ripetutamente.

La colpisce in pieno sulle guance, su una natica, sul ventre, mentre si sente prigioniero della sua frenesia.

Le fiamme  lo divorano,  gli impediscono di ascoltarla e a Lei di cedere.

Cerca di sollevare il collo, di muovere le gambe, ma l’Uomo glielo impedisce col suo peso.

Le manca la terra sotto i piedi. Eppure non va a fondo.

Per ripicca.

Rifiuta di ascoltare, la Voce la disgusta, sale come un fumo che le imbriglia i pensieri.

Lo Vede urlare ordini, ma non lo Sente.

Poi si abbandona al Torpore che apre la Porta.

 

GIOCHI DI BIMBA

Amavo giocare?

Non saprei.

Oggi mi piace.

Amo giocare con le mie capacità.

Mi piaceva scrivere. Di questo ne sono certa. Ancor prima di saperlo fare. Mi piaceva l’inchiostro che usciva dalla penna. Anche quello che macchiava le mani. I fogli scricchiolanti per la troppa pressione della scrittura. Volevo impossessarmene.

La lettera “g” era un traguardo. Credo che facessero apposta a presentarcela in quel modo, tutta adornata dalle contorsioni dello stampatello. Al suo traguardo collegavo un’avvenuta crescita. Ed io l’ attendevo.

Mi piaceva suonare. Anche di quella capacità avrei voluto impadronirmi ed ogni piccolo centimetro di avanzata nella tecnica veniva da me ripetuto con maestria sognata.

Mi piaceva disegnare piante. Usando solo colori. Fasci arcuati di colori accesi, l’uno accanto all’altro. Infondevo a quei fasci un sentire potente e luminoso. Li guardavo, ma gli occhi non rintracciavano linee di contenimento che richiamassero  la  forma verosimile. Non sembravano piante ma ne avevano tutto il fulgore. Alle ripetute richieste degli altri che mi chiedevano cosa fossero, decisi che il disegno non era per me  e lo lasciai perdere. Per riprenderlo molto più in là. Quando qualcosa  si aprì.

Scendevo in cortile a giocare con i bambini del palazzo in cui abitavo, ma c’erano troppi momenti morti in cui fare ciò che facevano gli altri non mi aggradava, anzi mi pungolava nervosamente l’animo. Giochi da maschio.  Per forza, erano in maggioranza. Eppure mi scalmanavo. Rossa, sudata e insoddisfatta.

Volevo comandare e questo perché me l’hanno riferito, non ricordo di essermene resa conto. Così, quando abbandonai il  nostro club, dove non si sa bene cosa facessimo, all’infuori di versare una quota settimanale di cinque lire in una piccola cassaforte verde, mi recapitarono una lettera che  mi informava della mia  avvenuta nomina di capo, pregandomi di tornare.

Iniziammo a togliere lo stucco dalle finestre dei pianerottoli, quello stucco che l’amministratore e i nostri genitori  davano come una crema alle suddette finestre, noi lo staccavamo facendone delle palle di simil pongo che adoperavamo come ci dettava la fantasia ed io ne custodivo il tesoro. Consapevoli di farla grossa, coloravamo col gusto del tragico i nostri giochi, aspettando i rimproveri che non tardavano a manifestarsi in tono drammatico, protetti però da una mancanza effettiva di prove,  di fronte  alla quale l’amministratore esercitava comunque un eccesso di potere condannandoci per alcuni giorni agli arresti domiciliari.

Mi piaceva andare a trovare Daniela, fare le attrici, progettare un film dell’orrore con tutti i crismi. Un film mai portato a temine  perché ci impaurivamo sul serio all’atto pratico. Allora ci mettevamo a baciare il muro, passando così al film d’amore.

Mi ritiravo con lei anche quando i nostri genitori si riunivano per le loro cene sontuose. Daniela all’improvviso scappava dalla sua camera. Io la seguivo e la vedevo alzarsi la gonna proprio davanti alle porte a vetro che ci separavano dai  grandi. Fremevo e lei rideva per lo scandalo  che in me provocava.

Mi piaceva spremerle i brufoli  sulla schiena  mentre ascoltavamo sempre lo stesso 45 giri ed io cantavo. Allora lei si alzava e capovolgendo una sedia sulla sua testa la trasformava immediatamente in una macchina per le riprese televisive  di fronte alla quale  mi esibivo in un inglese gridato e inventato. E scrivere di poesia.

A volte a pranzo, veniva a trovarci un amico omosessuale il cui più grande divertimento consisteva nello scrivere bigliettini d’amore con sopra il mio nome e gettarli dalla finestra ridendo, per stuzzicare la mia vergogna palese. Mio padre lo accompagnava nel riso.

Cantavo  senza posa. Mi specchiavo continuamente atteggiandomi. Non mi piaceva dormire nel pomeriggio.

Mi piaceva andare all’Anfiteatro e cuocermi un uovo al tegamino, ma non me l’hanno mai concesso. Quando avevo una nuova amica questo desiderio mi incendiava. Mi sembrava la cosa più bella da fare. Mi chiedevano  se fossi pazza. Non lo ero.

Adoravo il registratore a nastro. L’ho usato in tutti i modi possibili.

Piangevo. Quasi ogni giorno. Quando non trovavo pane per i miei denti.