‘Visioni altre’ per i Beni Culturali in Italia

di Vitaldo Conte

Il campo di appartenenza e azione dei beni culturali è molteplice, variegato. Ciò l’ho compreso fino in fondo nel mandare in giro (con modalità riservata) il documento iniziale di questo seminario “a porte chiuse” come un personale test. Intendevo “aprire” il mio pensiero a qualche parere di colleghi delle Accademie di Belle Arti, di critici d’arte e artisti. Quelli che mi hanno risposto lo hanno fatto in maniera generica, solo qualcuno ha espresso delle osservazioni specifiche. Quali sono dunque le pertinenze dei Beni Culturali? Quali possono essere oggi i suoi limiti in Italia? Quali potrebbero essere i nuovi strumenti idonei per la loro conservazione e diffusione? Attraversando la sua storia si può comprenderne la complessità, frequentemente ignorata. I beni culturali, che si contrappongono per definizione ai “beni naturali” offerti dalla natura, sono il prodotto delle espressioni della cultura. La cultura è, per propria natura, dinamica, anche quando si ricollega alla tradizione. Quella attuale tende a rapportarsi con i nuovi linguaggi, tra cui quello tecnologico. L’arte contemporanea, in tutte le sue espressioni, non può rifiutare oggi il rapporto con l’estetica, o meglio con la sinestesia, tecnologica, sia in chiave di congiunzione di linguaggio e sia in chiave di riflessione critica. La tecnologia tende sempre più a incamerare le spinte visionarie e immaginali dell’essere (la spinta verso gli estremi confini del conoscibile).Che la cultura non debba essere stagnante lo troviamo anche scritto nel manifesto di nascita del Futurismo del 1909: “Noi vogliamo liberare l’Italia dagli innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri”. L’espressione futurista, oggi presente nei musei, è stata la prima avanguardia nostrana a imporsi in ambito internazionale nell’arte contemporanea. Per sprovincializzare la cultura italiana teorizzava la distruzione simbolica dei musei, intendendo liberarla dall’essere luogo di stagnazione. A differenza di chi intende oggi praticarla materialmente nel nome di un monoteismo culturale: magari da “riconvertire”, attraverso i reperti, in finanziamento per l’economia del terrore dell’Isis (di cui nel 2014, secondo stime approssimative, 28 miliardi di dollari provengono dai reperti archeologici di grande valore “trafugati”). Gli studiosi che fanno riferimento alla Scuola Romana di Filosofia politica e al movimento di pensiero della Nuova Oggettività hanno apprezzato la sensibilità del ministro Franceschini quando, unico ministro dei Beni Culturali in Europa, ha disposto che fosse posta la bandiera nazionale a mezz’asta sui musei italiani in segno di lutto per l’efferato assassinio del prof. Khaled Asaad, sovraintendente al sito archeologico di Palmira. Questo episodio si aggiunge ad altri analoghi, occorsi in diverse parti del mondo. Nonché la recente sparizione, in Libia, della Venere di Cirene, restituita a suo tempo dall’Italia, assieme agli infiniti altri scempi compiuti su opere d’arte del passato, appartenenti ormai, anche per comune sentire, al patrimonio dell’umanità.

Le norme internazionali sui beni culturali sono essenzialmente accordi che vogliono la salvaguardia dei suoi patrimoni in occasione di eventi bellici, sostenendo che gli attentati a questi costituiscono una violenza al patrimonio dell’intera comunità internazionale. Alla Convenzione di Parigi(1970) l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura definiva in tale ambito come beni culturali quelli “designati da ciascuno stato come importanti per l’archeologia, la preistoria, laletteratura, l’arte o la scienza” (art. 1). Un bene culturale si definiscemateriale quando è fisicamente tangibile, come un’opera architettonica, un dipinto, una scultura. Ma lo sono anche i manoscritti, le collezioni scientifiche, le collezioni importanti di libri o di archivi o di riproduzioni dei medesimi beni.

La convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale (2003)prevede anche il bene immateriale espresso da: tradizioni ed espressioni orali, arti rappresentative, pratiche sociali, rituali, conoscenze riguardanti la natura, le abilità artistiche tradizionali, ecc. Molto del patrimonio dei beni culturali in Italia oggi, che dovrebbe essere tutelato e valorizzato con il suo restauro, vive viceversa non adeguatamente protetto tra rifiuti, inadeguatezze, furti (come i recenti 17 dipinti rubati al Museo di Castelvecchio a Verona). I problemi quindi sono economici e strutturali: i beni culturali ricercano risorse che possano garantire a loro un’autonomia amministrativa; le aste per le acquisizioni di immobili storici talvolta risultano deserte. Il persistente limite italiano è determinato dalla complessità burocratica e disorganizzazione che scoraggia investitori e turisti: come nell’ultimo agosto a Pompei il visitatore pagava il biglietto intero per vedere il 30 per cento delle opere. Un’altra problematica è individuabile nelle contrapposizioni e ridefinizioni delle competenze (ministeriali, comunali) e di gestione. Ma anche in quelle di lettura dei Beni Culturali: tra il Direttore (uno storico dell’arte) e il Sovraintendente con le sue “visioni” archeologico-architettoniche.

Il quesito di partenza di questo seminario è nella constatazione che, nel 2011, il Museo del Louvre a Parigi ha “incassato” da solo quanto tutti i musei italiani messi insieme. Una possibile risposta è anche nella constatazione che il Louvre è un museo che ha un corpo multiplo, oltrepassante una specifica raccolta storica. Per cui le strutture museali italiane dovrebbero sempre più aprirsi nelle proprie panoramiche espositive e di proposta contemporanea, come quelli di rapportarsi per contiguità con gli altri linguaggi della creazione. Molti turisti stranieri pensano talvolta che la nostra arte si fermi al Barocco: come mi ha sottolineato un giovane critico d’arte interpellato.

Non viene però adeguatamente esplicitato che i Musei Vaticani a Roma, quindi comunque in Italia e forieri di sviluppo turistico per la nazione, risultando il museo più visitato nell’Europa comunitaria con 6.200.000 visite e sono diretti da un italiano.

Per il non profit italiano può aprirsi però oggi un mercato esteso ora che il ministro Franceschini, con un decreto firmato recentemente, ha stabilito che i Beni Culturali possono essere affidati in gestione a privati senza fini di lucro se sono chiusi per mancanza di risorse o personale o “non adeguatamente valorizzati”. Nel testo del decreto è specificato che possono essere affidati in concessione d’uso “i beni culturali immobili del demanio culturale dello Stato per l’utilizzo dei quali attualmente non è corrisposto alcun canone e che richiedono interventi di restauro”.

Nell’ambito delle problematiche irrisolte dei Beni Culturali in Italia c’è quella del non-riconoscimento universitario (nonché dei finanziamenti per la ricerca) delle Accademie di Belle Arti. Quella di Roma, concepita alla fine del Cinquecento (denominata in un primo momento “di San Luca”) per riunire in un unico contesto le tre arti (pittura, scultura, architettura), crebbe talmente tanto da divenire modello per analoghe istituzioni che sorsero in tutta Europa tra il XVII e XVIII secolo. Le Accademie non sono solo detentrici di un patrimonio storico-artistico di assoluta rilevanza (archivio, gipsoteche, pinacoteche, corsi di restauro, ecc.), ma anche perché sedi di una attiva produzione contemporanea, costituita da ricerche e didattiche allargate (museali, espositive, ecc.) che sono esse stesse beni culturali. È assolutamente necessario, in questo momento così importante per la “sopravvivenza culturale” delle Accademie, porre l’attenzione a questa problematica: l’Italia (a differenze degli altri paesi europei) non riconosce il ruolo centrale svolto nell’ambito dei Beni Culturali dalle Accademie di Belle Arti.

Le strutture museali in Italia dovrebbero essere amplificate nelle loro accessorialità comunicative, soprattutto attraverso la strumentazione multimediale e la digitalizzazione delle medesime. La tecnologia deve diventare complemento della comunicazione tradizionale e strumento per coinvolgere maggiormente il pubblico. Questa può amplificare il messaggio culturale, offrendo al fruitore altre opportunità per vivere il museo rispetto all’estemporaneità della visita. Ciò può determinare unaintelligenza-visione che sintetizza nel proprio corpo i contributi di varie specificità (istituzioni, musei, esperti, curatori, ricercatori, innovatori) per “costruire” le possibili amplificazioni digitali dei musei italiani. La tecnologia applicata può rendere un museo sempre più accessibile. Questo è digitale quando il contenitore di un social e di un sito eguaglia il contenuto di un museo. La comunicazione si allarga non solo grazie ai suoi canali ma anche attraverso il miglioramento del modo di comunicare che dovrebbe far sentire il visitatore di qualunque età al “centro” della fruizione.

Un esempio di “apertura” è rintracciabile nel progetto della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma a Castro Pretorio, coordinato insieme a Google. Si propone di digitalizzare volumi rari e pezzi unici, anche del Cinquecento e Seicento, entro il 1874, dal valore inestimabile sul mercato librario antiquario. “Ma il progetto Google è solo uno dei tanti – rileva Paolo Conti (Corriere della Sera, novembre 2015) – che riguardano la Biblioteca nazionale centrale, autentico luogo di eccellenza del nostro Paese nell’applicazione delle nuove tecnologie”. È in programma anche una mostra di architettura realizzata con la ricostruzione virtuale attraverso progetti firmati da grandi architetti contemporanei.

C’è da segnalare in merito il progetto aperto del MuD Museo Digitale, che
parte dal giugno 2015. Questo nasce con l’obiettivo di aumentare le possibilità e la promozione dei musei italiani in ambito digitale, potenziando consapevolmente l’aspetto tecnologico della comunicazione per valorizzare il Patrimonio Culturale a livello nazionale e internazionale. Il MuD segue le linee guida della riforma dei Beni Culturali che rafforzano le politiche di cooperazione culturale con l’estero, aprendo il confronto con l’Europa sul tema del digitale. Al fine di rendere realtà questa evoluzione del settore museale, il MuD apre il dialogo con le nuove tecnologie, anche con colossi del web come lo sono Google, Facebook e Twitter.

La recente nomina di 20 direttori dei musi italiani, tra cui 7 stranieri, ha suscitato ricorsi e polemiche con la critica di essere uno spot mediatico. Il mondo della cultura è però internazionale, non può avere confini. E in più la scelta del direttore straniero può determinare la possibilità di attrarre sponsor internazionali. Non sempre però gli stranieri sono più attrezzati dei nostri: talvolta un funzionario interno della Sovraintendenza può valere come o di più di un curatore straniero, che comunque dovrà rapportarsi con i disservizi nostrani.

Una possibile critica da fare a queste nomine può essere formulata proprio in base alle esigenze proposte dalla nuova “visione” del ministro, mirante a incrementare il rapporto arte-turismo-cultura. Individuare cioè, per gli aspiranti nuovi direttori, anche competenze “futuribili” associate (più specificatamente cyberculturali) e di managerialità pubblicitaria, in quanto questi risultano essere tendenzialmente degli accademici, talvolta con qualche possibile conflitto d’interesse.

Forse si dovrebbero ricercare degli intellettuali consapevolmente “visionari” per i Beni Culturali in Italia per far decollare la Cultura e il Turismo come Imprese produttive e non semplice operazione di decorativismo o spot culturale. Senza un vero cambiamento l’Italia si potrebbe ritrovare sempre più su posizioni di “provincia” rispetto all’Europa e all’Altrove emergente.

I Beni Culturali oggi in Italia, per superare la crisi, necessitano di un allargamento di visione transculturale e translinguistico, che può divenire incremento di Turismo e di Economia, per lo spettacolo della cultura che vuole una narrazione e fruizione “a tutto campo” della sua storia, per divenire presente e futuro dei Beni Culturali.

 

VITALDO CONTE

 

Ho letto il tuo articolo uscito su Il Borghese, gennaio 2016. È centrato anche per un rinnovamento dell’Accademia delle Belle arti dove tu insegni.

Quanto sostieni, l’ho proposto anch’io in altro modo da docente di Estetica e di Storia del restauro di corsi per il restauro fin dal lontano 1987 — (la testimonianza rimasta è poca, però vi è prima un testo del 1994 pubblicato in una collazione a cura di Danila Bertasio, e poi un saggio più lungo scritto nel 1997 e pubblicato nel 2006 in un mio libro).

Voglio chiarirti che nel discorso “conservazione e fruizione di un Bene culturale”, ci sono due problematiche una pratica e una teorica — quest’ultima è quella più vicino alle tue teorie, mentre l’altra compendia quanto tu affermi.

(1) Pensavo fin dal 1986 che i programmi di computer, che già dal 1992 si producevano anche per il restauro, avrebbero dato uno sviluppo innovativo alla conservazione dei Beni culturali. Si avrebbe avuto un maggiore controllo dello storico dell’arte su tutti i tipi di intervento.

Ad esempio, in un restauro dipinti lo storico dell’arte, con le tecnologie informatiche e le indagini biologiche e fisiche sulla materia dell’opera avrebbe potuto meglio concentrarsi sulla immagine conservata e trasmessa nei vari periodi storici. In questo modo egli avrebbe avuto elementi per risalire alle varie tipologie di interventi di restauro che si sono succedute nel tempo e decidere l’intervento di restauro da fare, analizzate le problematiche del dipinto. Lo storico dell’arte, insieme al restauratore, oggi può ricostruire, anche per mezzo di programmi sulla gradazione di colore, ad esempio, la figuratività di un’immagine, e inoltre scegliere con quale colore adeguato andrebbe riempita una lacuna, perfino simulando prima sul computer le varie fasi di un intervento di restauro. In questo modo si velocizza un restauro — ma non so se diventa meno costoso per l’acquisto ancora alto dei programmi del genere e di un insieme di professionalità che occorrerebbe in un laboratorio di restauro che si rispetti.

Lo storico dell’arte comunque potrebbe esercitare un maggiore controllo sull’opera e sui suoi passaggi storici nonché decidere l’intervento da fare. Questa prima fase dà una conoscenza storica della materia dell’opera d’arte e dell’autore del dipinto.

(2) Veniamo alla parte attuale, su come produrre interesse sulla cultura del “bene” — e qui io direi meglio: sulla “esperienza della cultura del bene”.

Ti segnalo un esempio il MAV di Ercolano (Museo Archeologico Virtuale) con tutte le limitazioni presenti, e i potenziamenti e gli aggiornamenti che dovrebbero essere apportati a questo museo.

Le ricostruzioni virtuali e interattive credo che siano importantissimi strumenti innovativi di conoscenza e di esperienza che dovrebbero affiancare oggi tutti i siti archeologici.

Credo proprio che ci vorrebbero investimenti anche nella tecnologia e nella ricostruzione di “ambienti virtuali”. Investimenti che non sono nelle capacità progettuali di questo “miserabile” governo italiano — ma anche in quelli passati.

La cultura può trasformarsi in oro solo se si è in grado di trasformarla in esperienza conoscitiva, come in un film o in uno spettacolo. (Le Accademie e le Università dovrebbero iniziare a pensare dei seri investimenti in questo campo).

Attrezzare alcuni importanti Musei Università e Accademie di iper-computer almeno con virtualità a 3 D e con diaproiettori in ampie stanze e almeno a 300° della visione virtuale che sono accessibili a poco più di 45.000 €. Queste solo le prime attrezzature, poi ci sarebbe bisogno di tecnici che insieme a storici dell’arte e del costume, ricostruissero in modo “virtuale”, gli ambienti in cui si è prodotta un’opera o un monumento. E in ciò consisterebbe quella che possiamo chiamare la vera innovazione “turistica” del terzo millennio.

Credo in questo perché, a mio giudizio, il vero sviluppo futuro dell’arte consiste in ciò che s’intende oggi come nuova esperienza sensoriale. Tu hai segnalato ciò come ”aggiornamento” o “adeguamento” delle passate esperienze. La necessita che ci fosse anche un museo dinamico, utilizzando appropriatamente le teorie del movimento futurista nel tuo articolo.

Questo intervento sulla percezione e sui modelli della cultura, che tu hai acutamente sottolineato, è utile per divulgare come gli ambienti e i modelli di passate forme di “conoscenza sensitiva” presenti in un’opera d’arte, si modificano nei vari osservatori, o visitatori appartenenti a diverse epoche (George Kubler, La forma del tempo, 1970 — il cui testo pochi giorni fa ho trovato in internet però senza la postfazione di Previtali).

Veniamo a questo punto a stabilire ciò che è considerato veramente dinamico sia nella storia dell’arte contemporanea che nel museo oggi. Sono più di 250 anni  che la conoscenza sensitiva è stata posta a fondamento del racconto dell’opera d’arte; cioè, dal 1750, grazie a Baumgarten, noi dibattiamo dei cambiamenti nell’arte attraverso i modelli della nostra conoscenza sensitiva, proprio a partire dalla definizione del campo dell’Estetica. Filosofi, semplici cultori d’arte, o teorici dell’arte e poi critici d’arte per oltre due secoli e mezzo hanno dibattuto sull’artistico, attraverso la definizione poetica, fisico-visiva o fisico-musicale, filosofica o artistica in generale o semplicemente critica di come si forma la conoscenza sensitiva dell’arte o delle arti.

La distruzione della visione di una “conoscenza sensitiva statica” (leggi rappresentazione) fu messa in crisi proprio dalle avanguardie storiche; cioè dalle teorie futuriste prima e poi da quelle dadaiste e surrealiste; per questo motivo, sono con te, quando affermi che la conservazione delle opere nei musei deve adeguarsi alle nuove forme di esperienza, che io definisco di cognitività sensoriali. Queste cognitività sensoriali, oggi, sono prodotte con maggiore efficacia emozionali dalle neo-tecnologie dell’informazione. Attraverso l’uso degli strumenti informatici applicati a sensori, i nostri sensi possono essere immersi in spazi e in visioni interattive dinamico-virtuali, che producono anche “esperienze” che noi definiamo “artistiche” (John Dewey, Arte come esperienza, 1931).Ecco che abbiamo alla fine due mondi che fanno partecipare un osservatore al “Bene culturale”, e che sono inseparabili: Da una parte il reperto del passato che evoca una conoscenza sensitiva di una rappresentazione che va conservata;

dall’altra parte l’emerge di emozioni attraverso lo stimolo delle attività cognitive sensoriali, che impressionano il visitatore anche meglio di una “rappresentazione”. La configurazione di un ambiente relazionale induce un osservatore-percettore a fare un’esperienza pregnante di conoscenza, a cui il suo corpo ricorda di aver partecipato anche se in modo virtuale.

Questo insieme di rappresentazione e configurazione di relazioni in un ambiente virtuale costituirà l’interesse principale per la fruizione dell’opera d’arte NEL FUTURO.

Opere d’arte che saranno “contestualizzate” nelle forme di conoscenza sensitiva proveniente dal passato, ma che formeranno anche le esperienze cognitive sensoriali dinamiche e in evoluzione del futuro di osservatori-fruitori. Solo in questo modo l’opera d’arte può trasformarsi in “oro” nei futuri musei che saranno sempre più un incrocio tra l’opera reale e la sua ricostruzione in un ambiente sensoriale-virtuale.

Un abbraccio

Giuseppe Siano