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“Syd Barrett sulla nave dei folli – sublime coscienza alla deriva” da “Primo Piano cultura”

“Uno nasce e poi muore, il resto sono chiacchiere”. Non c’è dubbio che la sintesi filosofica dei fumettisti, in tempo di innovazioni comunicative, ovvero quando, molte delle “grammatiche” e dei  linguaggi collettivi, per intenderci, i  linguaggi della gente comune, non quelli  collegiali  dei tribunali e delle convenzionalità istituzionali, sono in fermento,  e gli strumenti della comunicazione, i vecchi strumenti della notizia, come le  universali pratiche  epistolari (cariche di attese spirituali), distribuite liturgicamente dalla fraterna figura del postino,  che nei piccoli centri e nei paesi, e ne è testimonianza il  bel film francese, “Jour de fête” del ‘47 di Jacques Tati,  impersonava l’imbastitura del vestito informativo della comunità, quando queste antiche maniere della comunicazione, vengono rimpiazzate dalle pionieristiche innovative strumentazioni planetarie, internet per esempio, i fumettisti, appunto, Altman in questo caso,  diventano il migliore strumento sintetico per definire e “disegnare” il senso della nostra vita. Diventano, a guisa della musica psycoelettronica  patrimonio all’origine di Syd Barrett,   linguaggio universale che aborra selezioni tra alfabetizzati e non, e diventa  il nostro colpo d’occhio, la nostra visione lampo sul senso delle cose e del mondo. La creativa funzione del fumetto, insomma,   ci permette, anche ironicamente, ma con profonda e nucleare sintesi, di farci gustare, “di dirci”, nella bellezza del segno e della creatività sottile della grafica e della parola,  che genere di viventi  siamo e che cosa facciamo, qui, sulla pelle di questa nostra grande madre terra. E il fumetto ci consola dicendoci,  nella  dovuta maniera metaforica,  che non siamo altro che specie umana che si presenta, di volta in volta, progressivamente o per revival storici,  come dice Umberto  Eco,  con la propria forma culturale ritratta nell’immagine simbolica  di  anelli della stessa  catena con cui, nel secolo di appartenenza,  si legano tra loro le generazioni che abitano e costruiscono  il mondo. Così, uno nasce e poi muore, e il resto sono chiacchiere, spazza via ogni paura antropica  della morte, pulisce  il lutto dall’immagine di tristezza  e pietas che anni contingenti  di ritualistiche sociali, non senza fatica, hanno strutturato per la rappresentazione pubblica del dolore e della pena. Toglie il paravento dall’esibizione obbligata del pudore e, con un semplice segno, genuino e calibrato, mette a nudo il mondo nella sua verità più sincera. Il gioco di esistere si fa ludico, cade la maschera all’obbligo della rappresentazione e il semplice genuino  mondo mentale dell’infanzia riconquista il  regno tra le regole degli adulti. Il fumetto e la musica, in qualche modo, sono  la parte sociale di noi più sincera e veritiera. Quando muoio i personaggi,  che il destino pronuncia dalla nascita fondanti i cambiamenti universali, questo nostro sincero mondo comunicativo, la musica e il fumetto, Barrett e Jacovitti per esempio, presi per comodità di scelta nel paniere delle offerte dell’olimpo, la nostra catena generazionale subisce delle rotture, si fessura, e a volte si spezza. Bisogna aspettare l’intervento di altri grandi uomini capaci di rimpiazzare il mancante e risaldare la nostra continuità esistenziale. A volte, basta poco per intuire l’aria dell’avvenuta mancanza. Bastano pensieri interventisti, sensazioni magiche, piccoli fremiti dello spirito mentre si viaggia in treno guardando incantati dal finestrino, normalmente non molto trasparenti, i fotogrammi di un paesaggio italiano che scorre lungo le brutture architettoniche dell’Adriatico, e la mancanza o la rottura della catena, appare silenziosa e intima come un magone che assale alla gola gridandoci in petto che una parte di noi, la nostra bella parte cresciuta all’ombra subliminale dei Pink Floyd, è evaporata, svanita tra le molecole della memoria sensibile ed emotiva dell’adolescenza e il treno, il finestrino, la bruttura architettonica lungo la costa adriatica, ci crollano addosso come le pareti instabili del nostro immaginario, strattonate dalle  onde sismiche di un terremoto. Basta una pagina di giornale che annunci nel titolo, Syd Barrett è morto, e d’improvviso, come un canto poetico di  Montale, “Forse un mattino andando in un’aria di vetro arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo: il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro di me, con un terrore di ubriaco”, la lirica  generazionale  che ha costruito il nostro mondo carico di attese e di sconvolgimenti planetari, il nostro mondo libero nella rivoluzione dei suoni musicali inventati dallo sciamanesimo di Syd Barrett,  cade, rotola verso il silenzio e il vuoto.  Aveva 60 anni e soffriva di diabete, da 30 anni viveva lontano dai palchi.  Creò, nel ’65, il gruppo dei Pink Floyd che abbandonò, staccandosi, come un’anima dal suo corpo che non riesce  più a sostenerla, tre anni dopo. Le innovazioni di suoni e di stile, il linguaggio di Roger Keith, questo il vero nome di Barrett,  creato per l’album di esordio, sono diventati un archetipo musicale, al pari delle composizioni di un  Wagner o di un  Ludwig van Beethoven, al pari di una ricerca filosofica di Schopenhauer o di Goethe, o ancora, al pari di una figura che meglio gli si adatta per stile, linguaggio e  biografia, portati da un Nietzsche, in  “umano troppo umano”. A ventuno anni, Syd Barrett ha già perso il contatto con la realtà e nei concerti smette di cantare improvvisamente, o canta la stessa nota per lunghi minuti. I suoi discepoli, i  Pink Floyd, si dice che cerchino in qualche modo di  salvare la sua vena compositrice. Gli  configurano un ruolo puramente di scrittura, senza presenza  sui  palchi.  Il tentativo non funzionerà. Il  solista Barrett incise nel ’70 The Madcap Laughs, Le risate del cappellaio matto. Alla fine del ’72 fu ricoverato per la prima volta in una clinica psichiatrica, poi,  negli anni successivi, altre  volte. Su di lui, o su quello che restava dell’immagine pubblica di Syd Barrett,  calò il sipario, al punto che in certi momenti fu addirittura dato per morto, nonostante la sua influenza continuasse a riflettersi su intere generazioni di musicisti e di comportamenti sociali. Nel ’75 l’ omaggio dei Pink Floyd con ‘Shine On You Crazy Diamond’, ‘Splendi, folle diamante’; una tenera dedica commossa riflessa  nel titolo dell’intero disco, ‘Wish You Were Here’, “Vorremmo che fossi qui”. Ed è così, Vorremmo che fossi qui grande genio innovativo che appari come un lampo dai titoli dei giornali nell’ora della tua scomparsa con un’icona fotografica che ti ritrae mentre cammini pavido nelle strade degli inglesi con la tua testa calva e i fogli di giornali tra le mani, e sulla camicia azzurra, magicamente appare una scritta indecifrabile che riapre il silenzioso mistero che ti avvolge e ci avvolge, adesso, tutti insieme nella nostra platinata forma di anelli della  catena generazionale e della storia. ‘Wish You Were Here’ grande Syd Barrett. E con te, vorremmo, forse, ci fossimo anche noi, presenti, qui, adesso, ad inventarci il mondo magico dei suoni che ci hai donato senza mai chiedere nulla in cambio se non la tua incredibile solitudine che è, poi, la solitudine religiosa dei geni e dei realizzatori di sogni planetari.

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