asino di buridano.jpgasino di buridano.jpgasino di buridano.jpgasino di buridano.jpgIntervista a Damiano Felini (parte 1)
Media education, tra pedagogia e cultura
Tra nuove e antiche controversie la media education si riconosce in un ricco ambito disciplinare che attinge dal bacino delle scienze dell’educazione e della comunicazione. Damiano Felini, autore del libro Pedagogia dei Media, in un’intervista per ilMediario indica l’urgenza di adattare la formazione scolastica alla realtà in cui vivono i giovani. La nuova alfabetizzazione al linguaggio dei media non è un insegnamento tecnico, ma un modo nuovo di fare cultura nella scuola.L’educazione ai media beneficia, da una decina d’anni, di un’attenzione particolare da parte della ricerca universitaria. Nel suo libro, Pedagogia dei Media la pedagogia è una lente privilegiata mentre altri studiosi spostano il focus su discipline come la sociologia dei processi culturali, la psicologia e la semiotica. Questo proliferare di punti di vista genera confusione o arricchisce ricercatori e educatori che attuano percorsi di media education nelle scuole?
Sicuramente i punti di vista attraverso cui guardare la media education, oltre a quello pedagogico, sono quello psicologico, sociologico e delle scienze della comunicazione. Quattro prospettive che analizzano lo stesso tema: media e formazione, media e minori. Il rischio della confusione, a mio parere c’è, nel senso che è facile parlare di educazione ai media usando le stesse parole, ma in realtà dietro ci sono background culturali differenti. Gli ultimi dieci anni di storia della media education hanno visto l’incontro tra le diverse prospettive disciplinari. Alla fine degli anni Novanta è cominciata a maturare la consapevolezza che uno scambio è sicuramente proficuo stando, però, attenti a precisare i propri ambiti di lavoro, le metodologie e i presupposti disciplinari, sia per comunicare meglio agli altri, sia per capire se stessi e prendere coscienza delle modalità con cui ogni disciplina ragiona con l’oggetto media. Nel libro ho fatto proprio un’operazione di questo genere, sottolineando come ragiona la pedagogia con l’oggetto media. Nel libro viene proposta, anche, una lettura storiografica della media education e si risale ai primordiali tentativi di preparazione del pubblico infantile e adolescenziale di fronte ai mezzi di comunicazione di massa, quando entravano per la prima volta nella società italiana.
È stata una delle prime intuizioni che hanno guidato la mia ricerca. Quando mi sono avvicinato a questi temi aleggiava una sorta di verità non discussa, ovvero che la media education sia arrivata dai paesi anglosassoni tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta, piombata in Italia in maniera quasi magica. Questo è falso come testimoniano i numerosi lavori prodotti, senza interruzione, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, e che costituiscono un percorso, interessante e valido di educazione ai media in Italia.

Vuole parlarci di questa ricerca?
Ho semplicemente iniziato questo lavoro di scandaglio a ritroso ed è un lavoro che continua a dare i suoi frutti. Per caso, in questi giorni, dalla soffitta del dipartimento di un professore dell’università, è emerso una dispensa del 1960 di una maestra che aveva organizzato un corso di cinema per la sua classe di allievi delle elementari.
Questo enorme lavoro viaggiava su un doppio binario: era un percorso portato avanti dagli insegnanti con i propri allievi, ed era, quindi, un lavoro pratico, messo in atto nei contesti educativi scolastici dell’epoca, e contemporaneamente era un lavoro di riflessione teorica affrontato dai ricercatori delle discipline prima citate.
A partire dalla fine della seconda guerra mondiale e fino alla metà degli anni Cinquanta gli interventi e la riflessioni sull’educazione scolastica ai media erano rivolti esclusivamente al mezzo cinema, per la ragione molto ovvia, che il cinema era l’unico media nella società italiana. La televisione è arrivata solo nel 1954, la radio, invece, non era vista come un problema e il giornale nemmeno, anche se non si sa bene perché.
Poi scoppia il problema tv, che la farà da padrone per una quarantina d’anni, ovvero fino ai giorni nostri caratterizzati, invece, dal discorso sulla multimedialità e l’interattività di Internet che, seppur con modalità diverse, è parte integrante dell’educazione ai media.Se la ricerca universitaria ritiene che il media educator abbia un ruolo centrale nella formazione dei ragazzi, perché una parte dell’establishment culturale sostiene sia più formativo studiare filosofia o lettere?
Questo è un dibattito vecchio ma tutt’altro che trascurabile, una controversia che non riguarda solo l’educazione ai media. Quando qualcuno alza la mano e dice che bisognerebbe fare educazione stradale nelle scuole, trova tutti d’accordo fatto salvo che poi c’è chi ci aggiunge quella sessuale, quella alimentare, quella ambientale, quella del carattere e così via. E allora poi c’è chi taglia la testa al toro e dice di no: facciamo che a scuola si insegnano solo le materie “forti”, matematica, italiano, scienze e filosofia.
In fin dei conti, tra cultura alta e cultura bassa; la soluzione è inevitabilmente un’opzione di valore che viene data e non la posso stabilire io o nessun’altro; tutte le posizioni sono valide. Quello che è importante capire è che quella che si compie è un’opzione di valore e non è la risposta giusta. La scuola deve fare quello che riteniamo debba fare e non solo una determinata cosa perché è già stata stabilita da tempo!Perchè fare educazione ai media nella scuola?
Se in passato l’alfabetizzazione passava attraverso il leggere, lo scrivere e il fare di conto, tutte cose che ti permettevano di vivere da cittadino nella società, oggi oltre a tutto ciò ci sono altre cose, tra cui la competenza dei linguaggi non alfabetici che sta diventando pregnante nella nostra cultura.
Il discorso è pensare alla formazione della nuove generazioni tenendo conto della realtà e del clima culturale in cui vivono, non possiamo rifarci alle lettere e alla filosofia solo perché quello era il modello culturale-formativo dei nostri padri. Quel modello risale agli anni Venti ed è andato avanti per sessant’anni. Non è detto sia l’unico modello giusto a cui bisogna per forza attenersi. Era anche quella un’opzione, così come oggi dobbiamo prendere in considerazione varie altre opzioni e capire quale è la migliore, discutendo e riflettendoci sopra.Lettere e filosofia sono le materie per eccezione che forniscano a un individuo gli strumenti critici necessari per leggere meglio la realtà che lo circonda?
Ci sono interessanti studi statunitensi che dimostrano come le competenze di analisi testuale applicate a testi scritti e applicate a testi audiovisivi o radiofonici, di fatto siano le stesse.
Questo è stato studiato sperimentalmente, prendendo campioni di studenti sottoposti a un training specifico sulla critica testuale o sulla critica testuale audiovisiva.
Quello che si è visto è che, quando uno studente ha imparato a lavorare bene su un testo di una certa natura, sa trasferire le competenze critiche che ha acquisito anche ai testi dell’altro filone.
È come se ci fosse una sorta di area di competenze che è transmediale e, come si evince da questi studi, c’è un’area transmediale. Formare al senso critico e all’analisi di testi scritti o di testi audiovisivi è equivalente!
Quindi per quale motivo non si possono integrare queste due cose? Certo la differenza risiede nel diverso potere formativo del contenuto, per cui il testo filosofico o letterario può fornire uno spessore culturale più alto del Grande Fratello, e questo può anche essere vero, ma è un altro problema.
Infatti, dal punto di vista delle competenze vuote, ovvero della pura abilità a lavorare su un testo, non esiste differenza tra l’uno o l’altro.Forse nell’educare ai media si cerca di fare notare ai ragazzi che esiste un messaggio costruito, mentre in un testo scritto si dà per scontato che ci sia.
Non sono d’accordo, e comunque dipende molto anche dallo stile di insegnamento; infatti ci sono molto testi di letteratura italiana per i licei che sono molto attenti a far capire il carattere di costruzione dei testi letterari e poetici. Ad esempio sono molto attenti a ricostruire il periodo storico e il contesto culturale in cui il testo è stato prodotto e il modo in cui il pubblico fruiva di questi testi: era il pubblico del Seicento dell’accademia o era il pubblico del periodo in cui il libro è diventato oggetto di consumo o era un pubblico che si faceva copiare il libro dall’amanuense o era il pubblico che comprava il libro a fascicoli in fondo al giornale? Questo dipende dalle opzioni didattiche che si scelgono: ci può essere un insegnamento della letteratura dove l’analisi è circoscritta al testo, ovvero si conduce un’analisi intratestuale, oppure ci può essere un’analisi più attenta alle modalità di fruizione dei testi.
Ci possono anche essere dei modi di insegnare la letteratura molto attenti al carattere di messaggio e quindi a sottolineare l’emittente e il destinatario del messaggio, il codice e il contesto della comunicazione.
Tutto questo non è lontano dalla media education, che svela i meccanismi di costruzione dei messaggi mediali e li fa notare ai ragazzi.

Damiano Felini, è dottore di ricerca in Pedagogia; insegna Pedagogia dei media alla Facoltà di Lettere dell’Università Cattolica di Milano e Media Education alla Facoltà di Scienze della Formazione della LUMSA di Roma.
Ha pubblicato il volume Pedagogia dei media. Questioni, percorsi e sviluppi per l’Editrice La Scuola di Brescia.

Eleonora Gasparetti, media educator per l’Associazione Culturale Tutor di Milano collabora ai progetti Dal Film al Film (laboratori di cinema e tv) e Radio Attiva (laboratori di radio). Conduce laboratori e corsi di formazione per il Gruppo Formazione – Mondo Scuola che si occupa di Didattica interculturale e educazione allo sviluppo e alla mondialità, settore di attività dell’associazione Il Sandalo-Commercio Equo e Solidale.a cura di Eleonora GasparettiÂ