Dom 6 Mag 2007
Autonomia, formalismo, spazialità : pittura, scultura e critica nella Russia pre e postrivoluzionaria
Centralità della percezione, autonomia dell’arte, storia che produce significati per il presente, spazialità : a ben vedere queste sono alcune delle principali istanze che stanno alla base delle teorie del formalismo letterario e dei suoi due esponenti più interessanti Viktor Sklovskij e Boris Ejchenbaum, ed in particolare della loro lettura di alcune opere dell’avanguardia artistica russa.
In un breve articolo – Lo spazio nella pittura e i Suprematisti – Viktor Sklovskij conferisce all’operazione compiuta da Malevic nel Quadrato nero su sfondo bianco una precisa legittimità storica. Viste attraverso l’evoluzione dei principi e delle teorie artistiche, le due principali caratteristiche dell’opera suprematista sono, per Sklovskij, la non-oggettualità (rappresentazione cromatica di figure geometriche) e la rinuncia a ogni tipo di spazialità (ovvero rappresentazione esclusivamente bidimensionale, che non simula alcuna relazione spaziale tra oggetti o cose). Queste due nuove “qualità “, seppure distinte nel loro sviluppo tecnico, vengono viste come strettamente correlate in quanto risultati di un processo di autonomizzazione estetica dell’opera d’arte: “Un quadro è qualcosa di costruito secondo leggi proprie, non imita”.
L’autonomia è qui intesa come netta separazione dell’arte da ogni correlazione con la rappresentazione diretta e mimetica della realtà (“il mondo delle cose”), una sorta di nuova presa di coscienza degli strumenti propri dell’arte che non hanno cause o influssi esterni (sociologici, politici, utilitari, religiosi ecc.).
Sia l’astrazione che la rinuncia alla spazialità sarebbero quindi reazioni critiche dei suprematisti alla pittura tradizionale, e ciò che rappresenta la novità agli occhi di Sklovskij è che la pittura suprematista svolge questa operazione con strumenti esclusivamente pittorici, con la negazione della prospettiva e la dichiarazione dell’artificialità del colore. Per Sklovskij “lo scopo delle arti figurative non è mai stato quello di rappresentare oggetti esistenti; è stato e sarà quello di creare oggetti artistici: e cioè della forma artistica”.
Due sono le vie scelte da Sklovskij per dimostrare l’incoerenza di ogni raffigurazione mimetica della natura: la non rappresentabilità del colore reale e la non rappresentabilità della forma naturale. Da una parte, nell’evidenziare l’impossibilità di rendere su una tela i reali rapporti di luce presenti nella natura, Sklovskij trova conferme in Hermann von Helmholz e nelle sue dimostrazioni delle incomparabili differenze tra il numero delle tonalità di colori presenti in natura e la gamma a disposizione sulla tavolozza del pittore. Dall’altra, sostiene che la forma restituita su una superificie bidimensionale non può essere fedele alla sua oggettualità reale dato che la tecnica fondamentale della sua rappresentazione – la prospettiva – non è mai stata applicata nel corso della storia dell’arte secondo le leggi della geometria descrittiva, ed è per questo scientificamente inattendibile. In questo discorso rientrano entrambi gli schemi prospettici, sia quello classico che quello bizantino e giapponese (da lui chiamato “cosiddetto inverso”). In seguito, Sklovskij non solo nega alla prospettiva il ruolo di tecnica di rappresentazione dell’oggettualità reale delle forme, ma sostiene che anche si volesse restituire una forma precisamente, secondo leggi matematico-proiettive, sarebbe impossibile renderla alla percezione dell’occhio in maniera obiettiva. Per affermare ciò si aiuta citando gli esperimenti grafici eseguiti dallo psicologo tedesco Wilhelm Wundt e i suoi studi sull’ambigua percezione di alcune costruzioni geometriche.
In sostanza, lo spazio prospettico è per Sklovskij solamente una convenzione pittorica della storia dell’arte figurativa perché: “Soltanto l’esperienza muscolare ci insegna a costruire lo spazio intorno a noi nel mondo esterno […]. Un oggetto si percepisce con la sua forma soltanto quando lo riconosciamo, quando sappiamo che cos’è. Hildebrandt nel suo libro Problema della forma dice che per creare l’impressione di profondità e di altezza di un quadro non basta rappresentare un campo che si allontana, ma è necessario dipingervi un albero e la sua ombra e sarà questa a suggerire la sua profondità “.
In altre parole, soltanto con l’esperienza fisica (ottica, tattile…) e dinamica dello spazio (osservazione da più punti di vista) noi abbiamo la definitiva percezione della forma, mentre la convenzione pittorica della spazialità è superabile in due modi: o negandola (come affermato dalla figurazione suprematista), o spostando l’attenzione dalla rappresentazione nello spazio alla rappresentazione dello spazio (degli spazi), ammettendo la completa artificialità dei processi artistici e conferendo valore alle tecniche di illusione pittorica, rendendo paritetici i problemi della percezione e della configurazione spaziale.
“Ma solo i suprematisti – conclude Sklovskij – i quali, mediante un lungo lavoro sull’oggetto come materiale hanno preso coscienza degli elementi della pittura, soltanto essi, ripeto, hanno saputo emanciparsi della schiavitù delle cose e, mettendo a nudo l’artificio, hanno dato allo spettatore quadri che sono unicamente una superficie cromatica.” Probabilmente per la prima volta viene sottolineata la totale continuità delle operazioni dell’avanguardia con il passato, ed è significativo che proprio Helmholtz, Wundt e Hildebrand vengano usati per proiettare il suprematismo nella storia dell’arte.
Questo testo rappresenta una delle prime escursioni di Sklovskij nel campo dell’analisi di specifiche forme pittoriche. Viene scritto per il giornale “Zizn Iskusstva” [La vita dell’arte] e successivamente inserito nella raccolta di saggi e feuilletons intitolata “La mossa del cavallo”, che esce in Unione Sovietica per la prima volta nel 1923. Molti dei temi affrontati – l’autonomia dei processi artistici, il problema della percezione delle forme – sono in realtà già presenti, sebbene riferiti alla teoria letteraria, all’interno dei suoi precedenti e più noti scritti e alla base delle tesi del circolo Opojaz e del cosiddetto gruppo dei “formalisti”. Già prima della guerra mondiale, il dibattito all’interno delle discipline letterarie in Russia è particolarmente vivace e in maniera specifica a partire dal 1917, quando esce il celebre Iskusstvo kak priëm, con il quale Sklovskij apre la strada alle tesi del circolo dell’Opojaz. Discutendo i problemi della scienza letteraria, il gruppo da il via ad un ripensamento sui significati dell’arte e delle forme artistiche (ed in particolare della forma letteraria) e si pone la questione cruciale della natura della forma artistica e della sua evoluzione.
L’obiettivo attorno al quale si riconosceva il circolo letterario del Opojaz era quello di superare le costruzioni estetiche, storiche e psicologiche che avevano caratterizzato la generazione dei linguisti e degli storici simbolisti in Russia. Si vuole superare la nozione simbolista della forma, ovvero l’idea che la forma sia l’unica ed esclusiva generatrice del contenuto. Sklovskij e Ejchenbaum sono studenti di filologia russa e panslava e si trovano in forte polemica con i propri maestri e in particolare con Potebnja, che in quel momento dominava la critica letteraria russa allacciando le proprie teorie di critica linguistica alla poetica simbolista. Il compito dei “formalisti” è demolire le teorie della risonanza dell’anima interiore nel linguaggio poetico (ricordiamo il famoso slogan “l’arte è pensiero che si attua per immagini”) che veniva in quel momento diffusa da Aleksandr Potebnja. In questo tipo di concezione, l’arte genera o lavora più per simboli che per forme, la forma artistica viene intesa più come mezzo per esprimere significati esterni all’oggettualità della forma stessa.
L’idea dei formalisti, manifestato attraverso un attacco frontale alle teorie simboliste sia in letteratura che in critica letteraria, è di tornare a ragionare principalmente sull’oggetto artistico in sé e sulle leggi che lo formano, ed in particolare sul materiale letterario e le sue caratteristiche linguistiche e foniche. Opponendosi quindi all’idea che la forma è un involucro contenente significati esclusivi, essi sostenevano che la forma è di per sé un insieme inclusivo, completo e dinamico, indipendente da correlazioni costruite sopra di essa e in possesso di un proprio valore artistico. Se per i simbolisti la poesia fu un pensare per immagini, per i formalisti il linguaggio poetico non è solo un linguaggio di immagini, ovvero linguaggio pratico, che serve a dire e comunicare qualcosa. Per i formalisti esiste un complesso un sistema di linguaggi il cui fine pratico è secondario e le cui rappresentazioni linguistiche aquisiscono un valore autonomo. Questo è il punto fondamentale: è una forma nuova che genera un contenuto nuovo. Non c’è bisogno di prendere a prestito nuovi contenuti per rinnovamenti formali.
Da qui il loro interesse verso la fiaba popolare costruita su linguaggi ironici e allusivi, per la poesia in generale e per le sue disgressioni liriche, per il paradosso, per la comunicazione infantile e infine per il zaumnyj jazyk dei poeti futuristi. Come stadio forse più estremo dell’autonomia del linguaggio la lingua transmentale, combinazione arbitraria di suoni, viene usata come tecnica per aumentare la difficoltà di una percezione diretta e automatica mentre si conferisce valore artistico alla percezione stessa, che diventa fine stesso dell’opera. Queste caratteristiche vengono cercate anche nei classici della letteratura, specialmente in Tolstoj e Gogol’, nei quali vengono analizzati interi passaggi dove i soggetti, le azioni o sentimenti non vengono nominati con i loro nomi bensì descritti come se li si vedesse o li si sentisse per la prima volta: il loro divenire ciò che significano, nel corso della narrazione, fa sì che il processo artistico venga dai formalisti identificato con la graduale percezione dell’oggetto, dell’azione o di un significato in generale in questione.
Il problema della percezione diventa per la cultura “formalista” il fondamento della nuova lettura della forma artistica. Non accontentandosi più del ruolo simbolico dell’immagine che costruisce significati, i “formalisti” auspicano l’eliminazione degli automatismi percettivi già radicati nell’esperienza e propongono una costruzione dell’immagine direttamente nella mente del lettore-spettatore. “L’arte – dice Sklovskij – è una maniera di “sentire” il divenire dell’oggetto, mentre il “già compiuto” non ha importanza nell’arte”. In tal senso l’arte si definisce come procedimento, e ad essa viene conferita una propria tecnica, la tecnica dello straniamento: rendere più difficoltosa la percezione, far ragionare la mente su qualcosa sottostante un testo (noi aggiungiamo una forma), offrire costantemente qualcosa che è contrario alle aspettative della ragione.
È interessante notare che Boris Ejchenbaum, quando nel 1927 tenterà nel suo Teorija “formal’nogo metoda” di fare un primo bilancio dell’attività dei formalisti nel decennio precedente, sottolinea l’importanza che Wölfflin e Karl Voll hanno avuto nella teoria dell’arte tedesca e non solo: “In Germania, appunto, la teoria e storia delle arti figurative, la più ricca di esperienza e di tradizioni, ha assunto una posizione di preminenza nello studio delle arti ed ha cominciato ad esercitare influenza sia sulla teoria generale dell’arte che sulle singole scienze, in particolare, per esempio, sullo studio della letteratura”. Ejchenbaum riconosce agli storici dell’arte tedeschi, e al loro lavoro svolto direttamente sulla materia artistica, sulla pittura e sull’architettura, nuove metodologie interpretative, basate sugli strumenti stessi dell’arte. Esattamente questo diventerà il cavallo di battaglia dei “formalisti”: lotta per l’autonomia della scienza letteraria sulla base delle specifiche proprietà del materiale letterario.
Tornando alle avanguardie, quello che Sklovskij aiuta a comprendere è il problema del come e quando il linguaggio verbale comune, il linguaggio quotidiano, si trasforma in linguaggio poetico, perché e in che modo questo avviene. Sklovskij spiega che l’avanguardia non fa altro che portare alla luce un lavoro che l’arte ha sempre compiuto o, secondo le sue stesse parole, “mette a nudo” un processo che è sempre esistito.
Nel testo La fattura e il “controrilievo”, introducendo l’opera di Vladimir Tatlin, torna a ribadire lo statuto autonomo dell’arte: “La parola in arte e la parola nella vita sono profondamente diverse; nella vita essa ha la funzione di una pallina sul pallottoliere, nell’arte è ‘fattura’; possiede una sonorità , deve essere profferita e ascoltata intera […]. La fattura è il principale segno distintivo di quel particolare mondo di cose appositamente costruite, il cui insieme siamo abituati a chiamare arte.” L’arte è convenzione, artificio, si identifica in un sistema di segni che non rimandano ad altro che a sé stessi. La convenzionalità dell’arte si basa su artifici e il procedere dell’arte non ha mai a che fare con leggi extra-artistiche ma nasce da altra arte. La fattura è per Sklovskij lo strumento con il quale l’artificio assume lo statuto artistico: essa svolge la funzione di quello che nella letteratura era l’estrarre da una serie linguistica normale – il linguaggio quotidiano – un solo elemento per riporlo dentro un’altra serie che non era fatta per accoglierlo. Questo elemento si trova “estraniato” e l’estraniazione rende parlante la serie naturale che prima era muta, la rende parlante artisticamente. A un linguaggio naturale dunque, basato su sintassi assolutamente fissate a priori, artificiale e convenzionale, ma non artistico, si sostituisce un linguaggio artificiale basato su serie artificiose e quindi su estraniazioni e di conseguenza su una alienazione del linguaggio fatto e dato come somma di artifici.
Sklovskij sta parlando dei “Rilievi” e dei “Controrilievi”, sperimentazioni che Tatlin inizia a svolgere, rispettivamente a partire dal 1913 e il 1915 e che espone nelle mostre futuriste Tramway e 010. Come è noto, Tatlin inizia a lavorare sui rilievi in seguito al suo viaggio parigino del 1913, durante il quale viene impressionato dai primi oggetti casuali depositati sulla tela da parte di Picasso e di Braque. Ciò che lo colpisce nei collages è l’irruzione nella superficie artificiale di un elemento oggettivo, di un elemento reale: l’irruzione del reale nella tela. A partire da questa istanza, Tatlin inizierà a lavorare sui suoi rilievi, non più classificabili né come pitture né come sculture, ma come composizioni di materiali estratti dalla quotidianità . Si tratta di elementi di legno, vetro, di ferro, di latta che occupano lo spazio. Parafrasando Sklovskij la latta e il ferro sono stati spostati negli stessi termini dei fonemi di Krucënych, nella stessa ricerca del significato della parola come tale, della parola senza significato aggiunto: ferro come ferro, latta come latta, legno come legno, senza alcuna funzione reale. La lamina ferrosa che serviva a produrre oggetti meccanici, viene estratta da questa condizione di “passività ” (usando le parole di Sklovskij, viene estratta dalla “percezione distratta”), rivelando che il gioco linguistico non è altro che un gioco fatto di scontri puri.
Sklovskij svolge un discorso metodologico: si toglie un elemento da una serie e lo si inserisce in un’altra. Questo essere messo fuori posto è appunto un artificio: si comincia a vedere un’immagine solo nel momento in cui essa viene spostata. Per fare di un oggetto un fatto d’arte bisogna estrarlo dalla “moltitudine confusa dei fatti della vita”. Questa razionalizzazione dell’estraniamento non è altro per Sklovskij che il ritrovare “scientificamente” le leggi artistiche.
La deformazione diventa quindi qualcosa parlante in sé. L’opera d’arte non è più solo forma, sono le sue leggi di costruzione a parlare: il significato va cercato in uno spostamento. Tatlin è per Sklovskij “fra i pittori russi, quelli che più si sono avvicinati al problema della creazione di oggetti fatti senza soluzione di continuità […]. Tatlin lo ha fatto allontanandosi dalla pittura […] dai quadri che dipingeva così bene ed è passato a contrapporre un oggetto, preso in sé stesso, ad un altro.” Se nella pittura di Malevic veniva apprezzata la purezza del segno cromatico, ciò che a Sklovskij interessa nella scultura di Tatlin è proprio l’introduzione del reale nell’irreale, la creazione di oggetti fatti senza soluzione di continuità .
Nei “Rilievi” gli elementi, come abbiamo accennato, entrano nello spazio non più come elementi bidimensionali ma tridimensionali. L’occupazione dello spazio sarà poi accentuata da Tatlin a partire dal 1915 nella costruzione dei “Controrilievi”, quando egli porrà gli stessi elementi in posizione angolare, sospesi su tiranti di acciaio e messi in relazione puramente plastica tra loro.
Il materiale, che è materiale estraniato da sé stesso, è entrato nello spazio. Nei “Controrilievi” di Tatlin non conta molto come il materiale viene deformato, non esiste una ragione precisa per le varie curve o delle forme degli elementi. Ciò che invece è importante è la relazione tra le superfici curve, piatte, con slabbrature che mostrano che si tratta di conflitti tra forma e materia e che Tatlin presenta come tali: superficie concava contro superficie piana ritagliata; il risultato dello scontro sono le slabbrature, i piegamenti delle loro superfici di contatto. Il legno reagisce contro il ferro, ferro e legno reagiscono contro lo spazio, sono inerti e assalgono lo spazio; lo assalgono non foss’altro per le forme dinamiche che vengono date da Tatlin ai suoi oggetti che avvolgono lo spazio-ambiente senza fondersi in esso. Non vi è nessuna relazione con la bottiglia abitata nello spazio di Boccioni. Non sono le forze potenziali dello spazio-ambiente che vengono rapprese dentro una figura in qualche modo scolpita. Al contrario, c’è perfetta estraneità allo spazio reale, lo spazio della vita.
“L’abbozzo di ‘controrilievo’ – spiega Sklovskij – è uno schizzo fatto con pezzi di un certo paradiso tutto particolare dove non esistono nomi né spazi vuoti, dove la nostra vita non assomiglia al nostro odierno ‘volo nel proiettile’, al nostro modo di esistere per punti.”
Vladimir Tatlin, Controrilievo angolare, 1915. Sinistra: fotografia dell’originale dalla mostra Vystavka novejshikh techenij, Mosca, 1927. Destra: copia recente esposta alla Galleria Tretjakov.
Nei “Controrilievi” sussistono due spostamenti semantici contemporaneamente: uno relativo alle serie che contenevano gli elementi reali che sono stati ridotti a segno e assemblati [non esistono nomi]; un altro relativo all’irrompere delle forme nello spazio reale [né spazi vuoti]. Le forme appartengono a quello spazio ma non vogliono avere funzione, denunciando quasi l’inutilità del loro esserci. Lo spazio è dunque solo spazio, è puro artificio, e non vuole simulare alcuno spazio reale.
Si “mette a nudo” un procedimento durato secoli, dice Sklovskij, e questo è il carattere virtuale dello spazio, vale a dire l’essenza dello spazio artistico che nello stesso tempo non è spazio della vita. È solo in quanto artistico, ma non è in quanto spazio della vita.
“Fine ultimo di Tatlin e dei tatlinisti è ovviamente la creazione di un nuovo mondo di percezioni, il trasferimento o la diffusione dei metodi di strutturazione delle cose artistiche su quella di oggetti d’uso quotidiano. Ultimo scopo di tale movimento dovrebbe essere l’edificazione di un nuovo mondo tangibile […]. Non so se Tatlin abbia ragione o torto. Non so se le lamine di latta ripiegate dalle composizioni dei suoi allievi potranno mai sbocciare in un ‘controrilievo’ fucinato del nuovo mondo. Non credo al miracolo, ragion per cui non sono un pittore.”
Il “Kafè Pitoresk” del 1917 che Tatlin realizza con Jakulov rappresenta il primo tentativo di creare un’ambiente totale in cui si tenta, incollando fra loro frammenti sparsi della realtà , di trasferire nello spazio della città il processo artistico dello straniamento. Se, come ha previsto Sklovskij, questo processo si rivelerà fallimentare, non bisogna dimenticare che esso darà inizio a quella poetica del materiale puro, del materiale “come tale”, che sarà fondamentale per l’architettura.
Il manifesto del realismo
Lo spazio rappresenta il tema centrale della scultura di Naum Gabo. L’importanza del suo lavoro risulta per il contesto sovietico del dopoguerra meno determinante rispetto a quella degli altri grandi protagonisti della stagione delle avanguardie: la sua permanenza a Mosca si registra soltanto tra il 1917 e il 1922, anno del suo definitivo abbandono della Russia (inizialmente per la Germania, e in seguito per l’Inghilterra) e sebbene circoli tra le aule del Vhutemas, Gabo non occupa al suo interno nessun ruolo rilevante. Tuttavia le sue vicende risultano esemplari: la sua biografia contribuisce a rafforzare ulteriormente il legame, così poco esplorato fino ad ora, tra le ricerche estetiche tedesche e russe nelle arti figurative, che si manifesta nella comune sensibilità rispetto al tema della spazialità . Una sensibilità che viene condivisa in particolare dagli artisti e dagli intellettuali russi che svolgono un’esperienza formativa nella Germania degli anni Dieci.
Gabo intraprende gli studi di medicina presso l’università di Monaco a partire dal 1910. Nei quattro anni passati nella capitale bavarese, frequenta le lezioni di Heinrich Wölfflin, con il quale intrattiene un breve ma intenso rapporto scientifico, e di Theodor Lipps, per il quale la nozione di spazialità nelle arti figurative, era uno dei principali temi di riflessione. A Monaco conosce Kandinskij, ma allo stesso tempo ha la possibilità di frequentare occasionalmente Parigi, dove risiede il fratello, il pittore Anton Pevzner. Caratteristica essenziale della personalità di Gabo è il suo interessamento per la fisica, la matematica e l’ingegneria: le frequentazioni delle lezioni di Conrad Röntgen, di Arnold Sommerfeld e degli studi presso la Technische Hochschule risulteranno determinanti per lo sviluppo dei suoi temi di ricerca.
Quanto le ricerche di Röntgen abbiano influenzato, già a partire dai primi mesi del Novecento, l’immaginario di una parte della cultura artistica internazionale è stato già ampiamente evidenziato: è in particolare John Bowlt a sostenere che per Gabo l’incontro con le immagini e le teorie di Röntgen avranno maggiore importanza delle teorie formaliste di Wölfflin.
Con lo scoppio della guerra Gabo si trasferisce in Norvegia, insieme al fratello Anton, dove trascorre due anni, fino all’armistizio successivo alla rivoluzione d’ottobre, cioè fino a quando si creano le condizioni per il loro ritorno in Russia. È proprio in Norvegia, dal 1915 al 1917, che Gabo inizia a lavorare sulla scultura.
Il suo esordio nella scena artistica sovietica coincide con la mostra collettiva sul Tverskoj bulevar’ del 1920, nella quale espone assieme al fratello e a Gustav Klucis, giovane artista lituano e uno dei futuri protagonisti dell’arte russa degli anni Venti. Sebbene non si conoscano precisamente i contenuti della mostra l’evento sarà reso celebre in particolare dal manifesto, stilato in occasione dell’esposizione, a cura dei due fratelli Naum Gabo e Anton Pevzner: il Realisticheskij manifest [Manifesto realista].
Osservato attraverso i temi che “emigrano” tra la Germania e la Russia, il manifesto offre interessanti spunti e ulteriori indizi per una più approfondita lettura di esso. “Noi diciamo – scrivono Gabo e Pevzner nel paragrafo iniziale del loro manifesto – Spazio e tempo sono oggi per noi rinati. Spazio e tempo sono le uniche forme su cui la vita è costruita e su ciò deve quindi essere edificata l’arte. Periscono gli Stati, i sistemi economici e politici, crollano le idee sotto la forza dei secoli, ma la vita è forte e cresce e il tempo prosegue nella sua continuità reale.”
Lo spazio non è visto solo come un “materiale” estetico ma è, come si riscontra nel pensiero di Florenskij, una condizione essenziale per l’osservazione della realtà , un dispositivo secondo il quale essa viene organizzata. E, in quanto tale, lo spazio diventa l’elemento esclusivo della creazione artistica. Nello stesso paragrafo i Pevzner si preoccupano di separare i fatti della quotidianità dalla sfera estetica. Le funzioni e il senso dell’arte non vanno cercate nell’ideologia politica o nel nuovo ordinamento sociale – come sarà specificatamente nelle istanze dei costruttivisti e dell’ambiente del “Lef” – ma, secondo le parole di Gabo, nella “continuità reale”, ovvero in quella caratteristica “astorica”, insita nell’arte che, come suggerisce il manifesto, ogni epoca deve “aggiornare”. Questo aggiornamento si basa sull’interpretazione della scienza, e sulle sue conquiste nella comprensione e nella conoscenza della realtà : “Il [L’inesorabile] progresso del sapere umano con la sua potente penetrazione nelle leggi misteriose del mondo, intrapresa all’inizio di questo secolo […] ci hanno indotto a considerare le nuove forme di una vita, che già pulsa e agisce. Come contribuisce l’Arte all’attuale epoca della storia dell’uomo? Possiede i mezzi necessari per dar vita a un Nuovo Grande Stile?”
Fondare un nuovo stile, preoccupazione diffusa tra architetti e artisti in questi anni, vuol dire nello specifico per Gabo assimilare la scienza. Il vero realismo per Gabo non risiede nella rappresentazione mimetica della realtà , ma nell’elaborazione degli stimoli che la scoperta scientifica – l’operazione più realista per antonomasia – offre alla lettura del mondo fisico. La “novità ” del manifesto risiede proprio in questa dichiarazione dello statuto di realismo in arte, che si relaziona con le più recenti scoperte sul funzionamento del rapporto tra l’uomo e ciò che lo circonda: “L’attuazione delle nostre percezioni del mondo sotto forma di spazio e tempo è l’unico fine della nostra arte plastica. Col filo a piombo in mano, con gli occhi infallibili come dominatori, con uno spirito esatto come un compasso, noi edifichiamo la nostra opera come l’universo conforma la propria, come l’ingegnere costruisce i ponti, come il matematico elabora le formule dell’orbita.” Ciò che è singolare, alla luce delle considerazioni svolte fino ad ora sulla natura della spazialità , è che nelle teorie di Gabo e Pevzner questa non viene considerata come un artificio artistico. Avviene da una parte il riconoscimento dell’assoluta centralità del processo di percezione, fatto che permette all’artista la libertà dalla mimesi, ma allo stesso tempo lo spazio è visto come unica e legittima componente estetica dell’arte, e pertanto la più reale. Non si tratta per l’artista, come insegnano Hildebrand e Favorskij, di munirsi della gamma di dispositivi artistici per costruire un sistema di rappresentazione artificiale che accentui e arrichisca il reale ma, ritornando alla stessa citazione, “con uno spirito esatto come un compasso noi edifichiamo la nostra opera […], come l’ingegnere costruisce i ponti, come il matematico elabora le formule dell’orbita”. La spazialità dell’opera è la manifestazione pura del suo valore artistico, e il suo conseguimento non è altro che la più realistica delle operazioni. La matematica, la scienza, Röntgen e l’ingegneria danno le basi per una ridefinizione delle caratteristiche percettive dell’uomo: per l’arte, riproporre questi temi non rappresenta una fuga dalla realtà , ma una presa di coscienza di essa, un atto di estremo realismo: “Tutto è finzione, solo la vita e le sue leggi sono autentiche […] perché la vita non conosce bellezza in quanto misura estetica. La più grande bellezza è un’effettiva esistenza”.
Prima di enunciare i propri principi artistici, Gabo e Pevzner si scagliano nei confronti del futurismo e del cubismo: “I tentativi compiuti dai cubisti e dai futuristi per strappare le arti figurative dal fango del passato hanno solo condotto a nuove delusioni.” Il cubismo “non porta che alla stessa superata rappresentazione, allo stesso superato volume e ancora una volta alla stessa superficie decorativa”, mentre il futurismo è soltanto “un vacuo parlatore”, poiché in relazione ai problemi prettamente pittorici “non ha potuto che ripetere gli sforzi, già con gli impressionisti mostratisi inutili, di fissare sulla tela un riflesso puramente ottico”. Commentando l’immaginario futurista sulla velocità come rappresentazione degli automobili e del frastuono metropolitano, Gabo vi paragona la “forza invisibile dei raggi solari, la più immobile tra le forze immobili”, a “300 chilometri al secondo”, ridicolizzando così i tentativi del futurismo di riassumere in forma artistica le manifestazioni del progresso.
Da più parti si è osservato come la struttura del Manifesto Realista richiami il testo di Malevic Dal Cubismo al Futurismo al Suprematismo: il nuovo realismo in pittura del 1915, ed in particolare i passi riguardanti i contenuti delle critiche sul cubismo e sul futurismo. In entrambi i testi la necessità del superamento di queste due correnti artistiche rappresenta il punto di partenza per la costruzione delle proprie istanze. Tuttavia, la fuga dal mondo oggettivo non ha niente a che fare con il Manifesto realista, e l’autonomia dell’arte espressa dal teorico del suprematismo viene affermata da Gabo soltanto nei riguardi dell’ideologia e della politica, mentre l’appello alla scienza, all’ingegneria e alla matematica costituiscono istanze che vanno lette nella direzione opposta a quella espressa da Malevic.
Naum Gabo, Cubo volumetrico e cubo stereometrico, 1920.
Dei cinque punti che Gabo e Pevzner enunciano come fondamenti della propria ricerca artistica ci interessano, in questo luogo, i due legati alla scultura, redatti direttamente da Gabo: “Rinunciamo al volume in quanto forma spaziale pittorica e plastica: non si può misurare lo spazio col volume. Guardiamo lo spazio… Che cos’è se non una profondità continuata. Affermiamo il valore della profondità come unica forma spaziale pittorica e plastica.”
“Rinunciamo alla scultura in quanto massa intesa come elemento sculturale. Ogni ingegnere sa che le forze statiche di un corpo solido e la sua forza materiale non dipendono dalla quantità della massa […]. Perciò reintroduciamo nella scultura la linea come direzione e in questa affermiamo che la profondità è una forma spaziale.”
Questi due enunciati riflettono le istanze che hanno portato Gabo nel 1915, durante la sua permanenza norvegese, a creare la sua prima Testa costruita (n.1). La principale novità di questa opera risiede nel principio di costruzione della scultura: atteggiamento radicalmente opposto al classico modo di ottenere una forma scolpendo un masso di pietra o fondendo il bronzo. La Testa è infatti realizzata con pezzi di compensato, tagliati e assemblati con colla e nastro adesivo: il principio del loro montaggio non porta alla modellazione di una figura, ossia all’implicazione dell’esistenza di un involucro, bensì alla costruzione della stessa nello spazio, alla formazione di una struttura che simula le linee della figura. Come suggerisce il manifesto, la massa non rappresenta più il veicolo della modellazione scultorea, ma è il vuoto, o meglio la profondità e la spazialità che permettono di costruire l’idea volumetrica della figura.
Questo principio viene definito come stereometrico. Il termine viene ripreso da Gabo dal ramo della geometria – la stereometria – che ha per oggetto lo studio e la misurazione dei solidi, e per illustrare le modalità con il quale questo concetto entra nella sua opera, alla mostra del 1920 espone due cubi – chiamati rispettivamente volumetrico e stereometrico – che rappresentano una sorta di diagramma volumetrico. Il primo cubo è un solido ordinario, che permette un’osservazione esclusivamente dell’involucro. Il secondo è invece costruito con la soppressione delle quattro facciate laterali, e con la predisposizione di due piani diagonali che si intersecano al centro del cubo. Questi due piani contribuiscono a strutturare un volume cubico e allo stesso tempo permettono di vedere l’interno della forma. Ciò che è esplicitato in forma elementare-geometrica attraverso i due cubi diventa la base di lavoro della costruzione delle teste, dove i piani diagonali diventano le linee forza della figura: “Perciò reintroduciamo nella scultura la linea come direzione e in questa affermiamo che la profondità è una forma spaziale”.
Oltre alla Testa costruita (n.1), Gabo espone alla mostra anche le due successive versioni, le sculture Testa costruita (n.2) del 1916 e Testa costruita (n.3) del 1916-17 e probabilmente anche uno dei torsi, che sono in questo periodo ancora in fase di studio. Quello che si deduce da questi esperimenti è che la principale differenza tra la Testa n.1 e la Testa n.2 è la volontà di Gabo di perfezionare alcune incertezze che la prima versione presentava. Innanzitutto l’intera figura viene modellata secondo il principio stereometrico: la prima versione manifestava ancora una non risolta figurazione della parte del busto, in particolare nell’invenzione dei seni che, più che a esigenze formali, rispondono ad una necessità di risolvere i problemi statici della scultura. Nella Testa n. 2 questo problema viene affrontato in maniera molto più efficace, con l’inserimento nella figura del gesto dell’incrociare delle mani.
La seconda testa presenta altri elementi formali che mostrano la crescente attenzione di Gabo per le potenzialità compositive del suo metodo stereometrico. Il viso è qui composto da più parti, ed è segnato in maniera molto più dettagliata: gli occhi, il naso e la fronte non sono resi, come nella Testa n.1, attraverso piani che simulano delle protuberanze, ma attraverso la segnalazione del loro perimetro, ovvero attraverso i vuoti che esprimono quelle parti del corpo. In altre parole, Gabo crea un dispositivo fromale nel quale la resa e il taglio della luce e delle ombre diventano elementi principali della composizione della figura. Quanto il contrasto tra luce e ombre diventa importante in questa “tecnica” scultorea di Gabo, è particolarmente evidente nel Torso costruito, datato 1917, nel quale la curvatura del corpo è segnata da un complesso sistema di vuoti delimitati dalle principali linee dei piani.
Inoltre, ciò che accomuna in particolare la Testa n.2 e il Torso è anche il presupposto di una loro osservazione totale, perimetrale. A differenza della prima testa, la cura per la rifinitura di tutti gli elementi del corpo attraverso l’assemblaggio dei pezzi dimostra la preoccupazione di Gabo di non riservare a queste due sculture (come sembra nel caso della prima Testa) un unico punto di osservazione privilegiato, ossia frontale.
È interessante notare che le sculture erano pensate inizialmente da Gabo in pezzi di cartone o in legno, più facilmente misurabili nel corso del montaggio, e utili come dei modelli per la realizzazione dell’opera con materiali più duraturi come la latta o l’acciaio. Gabo documenta, in una foto del 1916, i pezzi di compensato depositati su un lenzuolo, ancora prima di essere montati per comporre la Testa costruita n.2.
Naum Gabo, Torso costruito, 1916-17, opera perduta.
Un altro interessante indizio arriva da Anton Pevzner in una lettera scritta al fratello: “Il modello della tua prima costruzione non era confuso, ma straordinariamente importante. So qual è il suo valore e ho sempre saputo il suo significato: la legge della prospettiva inversa, le leggi della profondità , specialmente dello spazio, perfino le leggi stereometriche ci erano note più che a ogni altro artista. Anche se le idee sullo spazio circolavano nessuno le aveva ancora del tutto comprese…”.
Oltre alla ricerca sulla spazialità , oltre alla ricerca della resa volumetrica delle figure attraverso l’applicazione dei principi stereometrici, vi sarebbe anche una tentativo da parte di Gabo di portare alla tridimensionalità i principi compositivi della prospettiva inversa. In altre parole si tratterebbe di un tentativo di comporre la scultura di parti del corpo rappresentandole con linee forza (che nelle sculture di Gabo sono rappresentate con i perimetri, segnate dalle sagome dei piani del materiale) e da vuoti (che manifestano le parti del corpo attraverso gli effetti di luce e ombra). Tutti questi elementi del corpo risponderebbero al proprio “punto di fuga”, ossia trattandosi di una scultura, alla sua asse verticale. In effetti osservando in particolare il Torso, la Testa n.2 e la Testa n.3 questa tesi sembra probabile, come è possibile d’altronde che gli interessi per la spazialità in arte combacino con gli interessi per la rappresentazione dell’ikonopis. Tuttavia si tratta di una tesi che non trova riscontro negli scritti critici su Gabo, ad esclusione di un articolo che lo stesso Gabo dedica nel 1944 alla pittura tradizionale russa e intitolato The Concepts of Russian Art: “Quando, all’indomani della rivoluzione, è iniziata una nuova era nella cultura russa, un’altra caratteristica, innata nell’istinto estetico russo, è rinata allo stesso momento. Questa era l’astratto, o meglio, costruttivo movimento nell’arte. Sebbene questo movimento rappresentasse in Europa il seguito di una più generale rivalutazione nell’arte, nella forma con la quale è apparso in Russia, rappresentava la continuazione organica di un innato concetto estetico russo. L’ideologia costruttivista […] ha fondato i propri interessi sui valori assoluti degli elementi fondativi dell’arte, e il suo potere intrinseco nell’influenzare la psicologia umana e nello spronare così la vita spirituale della società .”
Prostranstvo zhivopisi i suprematisti, in “Zhizn Iskusstva”, n. 8, 5. settembre 1919. trad..it. Lo spazio nella pittura e i Suprematisti, in “La mossa del cavallo”, De Donato, Bari, 1967.
Ibid. pp. 85-86. È interessante notare come Sklovskij, affrontando il problema dell’artificialità del processo di figurazione, citi Giotto secondo il quale un affresco è solamente una “combinazione di superfici colorate”, ed è schema figurativo autonomo dalla parete, dall’architettura, indipendente per esprimere i propri contenuti. Come avviene in due grandi teorici contemporanei – Florenskij e in Favorskij – il riferimento a Giotto e alla pittura prerinascimentale diventa d’obbligo.
Ibid. p. 85.
Sklovskij si aiuta in questo caso ricordando i quadri di Veronese nei quali sono sempre predisposti più punti di fuga, dimostrando la non attendibilità delle restituzioni dimensionali delle figure nello spazio.
Wilhelm Wundt (1832-1920) fisiologo, psicologo e filosofo tedesco, assistente di Helmholz e di Johannes Müller, è uno fondatori della psicologia moderna. Promotore della psicologia come disciplina autonoma e scientifica, guida a Lipsia il primo laboratorio dedicato allo studio della psicologia sperimentale. Per Wundt l’essenza degli aggiustamenti dell’organismo risiede nel processo psicofisico, che è una risposta organica mediata sia dal fisiologico che dal psicologico, e nel quale la mente è vista non come una “sostanza” ma come attività . La traduzione di Mythus und Religion, parte del suo Völkerpsychologie [Kröner-Engelmann, Leipzig 1900-1920] è disponibile in russo a partire dal 1913 [Mif i Religija, S.Peterburg].
Lo spazio nella pittura…, op.cit. p. 90.
Sklovskij conclude l’articolo con la convinzione che la fase astratta e bidimensionale dei suprematisti sia solamente una tappa nella storia dell’arte “Non credo che la pittura rimarra per sempre non-oggettivista. I pittori non hanno sempre anelato alla quarta dimensione per accontentarsi di due sole”. Auspica tuttavia, senza indicare direttive, che la pittura si sviluppi passando per la strada intrapresa da Malevich.
Sklovskij tra altri cita anche Christiansen, uno degli allievi di Alexius Meinong, fondatore del laboratorio di psicologia sperimentale di Graz, dove studia il rapporto tra oggetti e la loro percezione interna. Vedi Alexius Meinong, Teorie dell’oggetto, a cura di Venanzio Raspa, Parnaso, Trieste 2002.
Corsivi miei. Lo spazio nella pittura…, op.cit. p. 91.
A dire il vero Sklovskij non nomina mai nell’articolo né Malevic né il Quadrato nero…, riferendosi in generale all’opera dei suprematisti. In realtà è assai più probabile che parli qui delle prime opere di Malevic, quelle realizzate a partire dal 1915 (come appunto il Quadrato nero…) anziche dei supremus spaziali del ’17, dai quali inizia invece un diverso ragionamento sullo spazio pittorico, risultante dalla disposizione delle diverse figure sulla tela.
Ricordiamo che il significato dell’acronimo Opojaz – Obscestvo izucenija poeticeskogo jazika – è “Società per lo studio del linguaggio poetico.” L’Opojaz diventa dal 1916 l’organo ufficiale dei teorici della letteratura cosiddetti “formalisti”.
Trad. italiana L’arte come procedimento, in “I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico”, a cura di Tzvetan Todorov, Einaudi, Torino, 1968.
Ciò che affascina i formalisti è la serialità della favola russa nella quale personaggi e situazioni si ripetono con una certa regolarità – come nelle barzellette – e nulla dall’esterno tocca la favola stessa.
Za [oltre] um [mente] jazyk [lingua]. Solitamente tradotto come “linguaggio transmentale”.
In L’arte come procedimento, op.cit.
Trad. italiana La teoria del “metodo formale”, in “I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico”, a cura di Tzvetan Todorov, Einaudi, Torino, 1968.
La fattura e il “controrilievo”, in La mossa del cavallo, op.cit., pp. 93-97.
Corsivi miei. Ibid. p. 94.
“Di tutte le influenze – scrive Sklovskij a proposito della letteratura – che agiscono nella storia della letteratura la principale è quella di un’opera su un’altra” e “non bisogna inutilmente moltiplicare le cause o, con la scusa che la letteratura è espressione della società , mescolare la storia della letteratura con la storia dei consumi. Si tratta di due cose assolutamente diverse” Viktor Sklovskij, “Connessione tre i procedimenti di costruzione dell’intreccio e i procedimenti stilistici generali”, Poetika, 1919, citato da Ejchenbaum, Teoria del metodo formale, op.cit.
Ibid. p. 95
Corsivi miei. ibid. p. 96.
ibid.
Dai primi momenti della sua fondazione Anton Pevzner, il fratello di Gabo, insegna pittura al Vhutemas. Anton è in questo periodo un personaggio abbastanza famoso nei circoli artistici moscoviti: inizia ad insegnare presso i laboratori del Svomas a partire dal 1918 (che, ricordiamo confluiranno nel Vhutemas a partire dal 1920), mentre Naum è un artista quasi sconosciuto, ma frequenta il laboratorio del fratello tenendovi alcune lezioni. Cfr. Martin Hammer, Christina Lodder, Constructing modernity: the art and career of Naum Gabo, Yale university press, New Haven; London 2000.
Stando al suo diario privato, Gabo viene indirizzato da Wölfflin a svolgere un viaggio in Italia, secondo un itinerario preparato dallo stesso Wölfflin. Il diario è parzialmente riportato in Hammer, Lodder Constructing modernity, op.cit., pp. 22-23.
Linda Dalrymple Handerson ha osservato come già nel 1896, a un anno dalla pubblicazione delle prime immagini scattate da Röntgen con l’ausilio delle irradiazioni dei raggi X, esistono più di cinquanta libri e oltre mille pamphlet sull’argomento. Le ricerche di Röntgen, secondo la Henderson, letteralmente scoinvolgono il mondo, non solo scientifico, e provocano interessi e reazioni di tale portata sulla cultura artistica da non essere paragonabili ad altro evento “scientifico”, almeno fino all’esplosione dalla bomba atomica. Questi esperimenti avranno una straordinaria diffusione anche grazie alla semplicità tecnica della fabbricazione del tubo catodico di Röntgen per il conseguimento di immagini ai raggi X. La Henderson documenta come nell’Esposizione universale di Parigi del 1900, diversi padiglioni vengono dedicati alle fotografie ai raggi X. Ciò che impressiona è ovviamente la possibilità di vedere attraverso il corpo, ossia la dimostrazione dell’esistenza di una realtà extra-sensoriale, di una realtà non direttamente percepibile attraverso i sensi dell’uomo. Secondo la Henderson questa “visione attraverso il corpo” diventa per gli artisti un argomento per la messa in crisi dell’impressionismo e del suo interesse per la pura sfera della rappresentazione sensoriale. I raggi X rendono in sostanza evidente l’inadeguatezza della percezione umana nei confronti della realtà . Cfr. Linda Dalrymple Henderson, Duchamp in context: science and technology in the large glass and related works, – Princeton University Press, Princeton 1998, pp. 6-12.
Anche Bowlt sostiene che le fotografie scattate con i raggi X sono state di primaria importanza per la cultura artistica sovietica. Il 1918 Nikhail Nemenov, studente di fisica all’università di Monaco, fonda a Leningrado il primo laboratorio di ricerca sui raggi X. Cfr. John E. Bowlt, The Presence of Absence: the Aesthetic of Transparency in Russian Modernism, in “The Structurist”. n. 27-28 [Transparency and Reflection], 1987-1988, pp. 15-22.
Oltre alla monografia di Hammer e Lodder si rimanda alle interviste a Gabo contenute in Naum Gabo, Sixty years of constructivism, The Tate Gallery, London 1987; Hammer, Martin; Lodder, Christina (a cura di) Gabo on Gabo, Artist Bookworks, Forest Row, 2000. Per comprendere l’attività di Gabo in Inghilterra: Circle: constructive art in Britain 1934-40 (a cura di Jeremy Lewison), Kettle’s Yard Gallery, Cambridge 1982; Circle: international survey of constructive art (a cura di J. L. Martin, Ben Nicholson, N. Gabo), Faber & Faber, London 1971.
Secondo la ricostruzione di Martin e Lodder alla mostra vengono esposte quattro costruzioni spaziali di Naum Gabo, tre quadri di Pevzner e due dipinti di Klucis.
Naum Gabo, Anton Pevzner Realisticeskij manifest, trad. it. Manifesto realista, in Mario De Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano 2002 (ristampa del 1986), pp. 400-405.
Corsivi miei. Ibid. p. 400. Secondo la ricostruzione di Hammer e Lodder l’autore del Manifesto è Naum Gabo, solo i passi riguardanti la pittura sono ad opera di Anton.
“Malgrado le istanze dello spirito rinascente del nostro tempo, l’Arte si alimenta ancora di impressioni, di apparenza esteriore, ed erra impotente tra il naturalismo e il simbolismo, fra il romanticismo e il misticismo.” Ibid. p. 401.
Corsivi miei. Ibid. p. 403.
Vladimir Favorskij é il traduttore di Das Problem der Form in der Bildenden Kunst di Adolf Hildebrand e il promotore delle sue teorie in Russia. Il libro, pubblicato come Problema formy v izobrazitel’nom iskusstve i sobranie statej, Musagaet, Moskva, 1914, è in realtà una raccolta di saggi dello scultore tedesco tra i quali si segnala il celebre saggio sul pittore e maestro di Hildebrand Hans von Mareés (pubblicato originariamente nel “Münchener Neuste Nachrichten” nel 1909) e “K ponimaniju hudozestvennoj svjazi arhitekturnyh situacij” [Sulla comprensione dei rapporti artistici delle situazioni architettoniche] (orig. In “Raumkunst”, n. 19, 1908), nel quale Hildebrandt studia i rapporti visivi e gli effetti plastici tra oggetti architettonici e monumenti in alcune storche piazze italiane (S. Marco, Piazza della Signoria…).
Nel passo che segue immediatamente è possibile riscontrare echi della parola, o del materiale “come tale” di Sklovskij e Tatlin: “Sappiamo che tutto ha una propria immagine essenziale: la sedia, il tavolo, la lampada, il libro, la casa, l’uomo. Sono tutti mondi completi, coi loro ritmi e le loro orbite. È per questo che nella creazione degli oggetti noi togliamo loro l’etichetta del proprietario, del tutto accidentale e posticcia, e lasciamo solo la realtà del ritmo costante delle forze insite in essi.” Manifesto realista, op.cit. p. 401.
Ibid. p. 402.Ibid.Ibid.
Kazimir Malevic Scritti, a cura di Andrei B. Nakov, Feltrinelli, Milano, 1977.
Il Manifesto non risparmia neanche le operazioni di astrazione: “La vita non conosce verità razionali astratte come metro di conoscenza: il fatto è la maggiore e più sicura delle verità . Tali sono le leggi della vita. Può l’arte sopportare tali leggi, se è costruita sull’astrazione, il miraggio, la finzione?” Manifesto realista, op.cit. p. 402.
Ibid. p. 404. Il primo enunciato si riferisce alla “fattura” del colore: “Nella pittura rinunciamo al colore in quanto elemento pittorico: […] il colore è un’impressione esteriore e superficiale; è un accidente che non ha nulla in comune con l’essenza più intima dell’oggetto. Affermiamo che la tonalità della sostanza, cioè il suo corpo materiale assorbente la luce, è l’unica realtà pittorica.” Il secondo rimanda alla nozione di ritmo, che affronteremo in maniera più dettagliata nel seguente capitolo: “Rinunciamo alla linea in quanto valore descrittivo: nella vita non esistono linee descrittive; la descrizione è un segno umano accidentale sulle cose, non è tutt’uno con la vita essenziale e con la struttura costante del corpo. Affermiamo che la linea vale solo come direzione delle forze statiche e dei loro ritmi degli oggetti.”
Ibid. p. 404.
Sui contenuti della mostra rimando alle ricerche di Hammer e Lodder Constructing modernity, op.cit., ed in particolare le pp. 35-48.
Non è da escludere che il disegno dei pezzi e il modo di strutturare la costruzione della scultura fosse anche dettato dal fatto che si presumeva che la scultura potesse cambiare dimensione (ingrandirsi o rimpicciolirsi) in base al sistema del allargamento prospettico dei signoli pezzi.
Lettera di Anton Pevzner citata in Martin Hammer, Christina Lodder, Constructing modernity, op.cit. p. 33.
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