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(Immagini e opere di Marco Bonanni, per g. c.)
Con il termine dio, dal latino deus deriv. da divus=splendente [1], viene indicato l’essere superiore, di tipo trascendente e/o immanente, il cui rapporto con l’essere umano – interpretato diversamente a seconda dei vari tipi di credo – prende il nome di religione. La radice indoeuropea, da cui viene “divus” e successivamente “dio”, significa “luce”. Tale appellativo dell’Essere infinito ed eterno si spiega con il fatto che, sin dall’antichità fino ai giorni nostri, chi ha fatto esperienze di dio, le ha sempre caratterizzate come esperienze di “luce”, oltreché di beatitudine, gioia e pace.

Nelle religioni e filosofie monoteiste, Dio rappresenta l’essere supremo, eterno e infinito, creatore dell’universo; ed in questa accezione viene indicato con l’iniziale maiuscola. In particolare, nella tradizione ebraica, cristiana ed islamica, a Dio viene attribuito carattere personale e ad esso è associata una rivelazione pubblica.

Nelle religioni politeiste, con dio (generalmente indicato con la lettera minuscola per lo meno nel mondo occidentale) si intende una delle entità superiori all’uomo innanzitutto in potenza, in sapienza e spesso in moralità, quasi sempre (ma non necessariamente) immortale. In questo caso spesso viene ulteriormente identificato con il nome proprio: ad esempio nella religione greca – e nella relativa mitologia – il dio Apollo, la dea Atena, ecc.

L’ateismo nega l’esistenza di tale essere superiore ritenendola frutto della elaborazione mentale dell’uomo.

Visione induista

La visione di Dio presso la religione induista è estremamente articolata, dal momento che l’Induismo stesso può essere considerato – più che una religione in senso stretto – un insieme più o meno eterogeneo di numerose correnti filosofiche e religiose, a volte in apparente contraddizione tra loro. Questo rende l’Induismo difficilmente classificabile; infatti, sebbene da molti venga erroneamente (e superficialmente) considerato politeista, vi si ritrovano tratti di diverse tipologie di religiosità, tra cui monoteismo ed enoteismo. I principali punti di vista della religione induista sono sei, e vengono chiamati Darshana: essi designano le differenti possibilità di approccio ad uno o più degli aspetti filosofici, devozionali, metafisici e ritualistici emersi in un’epoca che affonda le sue radici nel mito (l’Induismo è infatti la più antica delle principali religioni del mondo).

Apparenti contraddizioni

Secondo alcuni non è corretto parlare di “Dio” in un contesto induista. Questo può essere vero solo in seguito ad un’analisi superficiale, poiché tale termine, nella cultura indù, può riferirsi tanto alla totalità del Divino quanto ai Suoi singoli aspetti: ad esempio, l’aspetto personale o quello impersonale, l’aspetto creativo o quello distruttivo, l’aspetto femminile o quello maschile, l’aspetto dolce o quello austero, l’aspetto trascendente o quello immanente, e così via.

Questa tendenza a racchiudere in simbologie aspetti tra loro opposti e complementari spiega l’apparente contraddizione tra le varie forme di Dio venerati nell’Induismo. Ciò si riflette nel sistema delle murti (raffigurazioni di Dio o dei Suoi aspetti): per fare alcuni esempi, Devi (ossia l’aspetto materno/femminile di Dio), a seconda dell’aspetto che si vuole considerare, viene chiamata Kali (aspetto terrifico della Madre Divina che, per amore del devoto, distrugge i demoni) oppure Bhavani (aspetto creativo della Madre Divina, lett. “Colei che dà la vita”); e, allo stesso modo, S’iva (l’aspetto paterno/maschile di Dio) viene chiamato a seconda dei casi Hara (lett. Distruttore) o Shankara (lett. Benefico).

Il Multi-forme ed il “Senza forma”

Solitamente, con “Dio” in un contesto induista ci si riferisce al Dio-persona (generalmente chiamato Ishvara, che significa “il Signore”), il Dio con una Sua individualità, con degli attributi, con Nomi e Forme (in sanscrito, nama-rupa), il Dio dotato di tutti i poteri, al tempo stesso immanente e trascendente, il Dio che per amore dell’uomo si incarna ed impartisce gli insegnamenti necessari per ottenere la realizzazione spirituale. Ishvara (nelle sue innumerevoli forme e nomi) costituisce l’aspetto supremo di Dio presso i principali culti devozionali (Bhakti o Bhakti Yoga) monoteisti, ovvero S’ivaismo (monoteismo di S’iva), Vaishnavismo (monoteismo di Vis.n.u / Kr.s.n.a) e Shaktismo (monoteismo di Devi, la Madre Divina, chiamata anche Shakti). È importante sottolineare, tuttavia, che nessuno di questi culti nega l’esistenza o la validità delle altre forme/nomi divini; ciò che varia in ognuno di essi è soltanto l’aspetto peculiare (di Dio) su cui ci si vuole focalizzare, per farne oggetto di devozione.

Secondo la scuola di pensiero del Veda-nta, in particolare secondo la filosofia Advaita (filosofia della non dualità), esiste un substrato metafisico di tutto ciò che esiste – su tutti i piani, grossolano, sottile e causale – un vero e proprio supporto situato al di là di ogni individualità, sia che essa riguardi l’anima individuale (detta Jiva) o quella universale (Ishvara, o Dio-persona). Questo substrato si trova oltre il mondo dei nomi e delle forme, ma per poter essere indicato, viene chiamato Brahman; esso rappresenta la base del manifesto e dell’immanifesto, uno stato indifferenziato di puro essere, eternità e beatitudine, senza nascite e senza cause, situato al di là di qualsiasi speculazione filosofica o moto devozionale.

Unicità di Dio

Per l’induista, le varie religioni (chiamate Dharma) sono sentieri che conducono all’unica Mèta; l’unica cosa che differisce sono gli strumenti per giungere a questa Mèta, ovvero i nomi e le forme, le ritualità, e così via. Da qui il forte senso di rispetto verso tutte le fedi, poiché ognuna di esse è vista come una possibile via per raggiungere l’unico Dio e riscoprire la propria Natura Divina.

Visione buddhista

Il Buddhismo è fondamentalmente una religione non-teista; Siddhartha Gautama, fondatore della religione, rifiutò sempre di occuparsi di questioni metafisiche sostenendo di insegnare solo ciò che è necessario a seguire la Via, e nient’altro. Al monaco Malunkyaputta che gli poneva simili domande, rispose che se un uomo avvelenato desiderasse sapere tutto dell’avvelenatore prima di assumere l’antidoto, non riuscirebbe a salvarsi[2]

In tutte le speculazioni posteriori, gli dei, che pure compaiono spesso nelle scritture buddhiste, sono considerati esseri senzienti al pari degli altri, e quindi prigionieri del Sam.sa-ra; la natura “divina” è solo una di quelle appartenenti al ciclo delle rinascite, ed agli dei si nega dunque la trascendenza (es. Brahmajala Sutta). Un altro atteggiamento verso gli dei è che avendo natura diversa da quella umana sia impossibile ogni forma di contatto: nel Tevijja Sutta, il Gotama Buddha condanna come sciocchezza l’idea che i brahmini possano insegnare ad altri come raggiungere Brahma, che essi stessi non conoscono.

Nelle scuole Buddhismo Therava-da, nessun essere vivente è al di là del Sam.sa-ra, e dopo la sua morte un Buddha è al di là dei sensi. A partire dal Buddhismo Maha-ya-na, però, si assiste a un progressivo fenomeno di “divinizzazione” della figura del Buddha; è interessante notare che la scuola Maha-ya-na si formò in un’area di forte influenza ellenistica (dentro o vicino all’Impero Kushan), e fu la prima scuola a rappresentare il Buddha con statue e bassorilievi, oltre che la prima a riferirsi a lui col nome Bhagava-n (venerabile, divino), usato nell’induismo per riferirsi agli dei.

Visione Maha-ya-na

Nel Buddhismo Maha-ya-na, pur negandosi decisamente il concetto di un Creatore, si parla tuttavia in alcuni sutra (ad esempio nel Maha-parinirva-n.a Su-tra) di un principio noto come “Natura Buddha” (Buddha-dhatu o Tathagatagarbha), piano ultimo di tutte le cose, la Mente Risvegliata, eterno e onnisciente, immanente e trascendente la Realtà, un germoglio del quale è presente in ogni essere senziente ed apre a esso la strada per diventare un vero Buddha. Sebbene siano esistiti ed esisteranno molti Buddha, la loro natura è la medesima; nel Lalitavistara Su-tra, Gautama dice: «Io sono il dio sopra gli dei, superiore a tutti gli altri dei; nessun dio è come me — come potrebbe essercene uno più in alto?». Questa “essenza” del Buddha è indistruttibile, incomprensibile, divina, eterna, infinita, onnisciente, immacolata, increata e immortale, e il suo reame, secondo il Nirva-n.a Su-tra è inerente in tutti gli esseri viventi.

Visione Vajrayana

Nelle scuole tantriche, in particolare nel Buddhismo tibetano, è presente la figura dello Yidam, discutibilmente tradotto come “deità“; gli Yidam sono forme di Buddha che rappresentano particolari qualità della mente; tali forme sono parte centrale di alcune specifiche meditazioni nelle quali lo studente si identifica con esse per sviluppare le qualità che la forma rappresenta. Alcune forme, come ad esempio quella del “Buddha primordiale” (Adi-Buddha), rappresentano la natura della mente stessa, non creata, avente le caratteristiche di spazio (vacuità), luminosità (capacità di conoscere e di sperimentare) ed assenza di limiti; il praticante buddhista ha come scopo ultimo il riconoscimento della natura della mente, l’Illuminazione. Nel Kunjed Gyalpo Tantra (“Tantra del Re Creatore del Tutto”), appartenente alla tradizione Nyingmapa, l’Adi-Buddha, identificato con Samantabhadra, dice di sé: «Io sono il nucleo di tutto ciò che esiste. Io sono il seme di tutto ciò che esiste. Io sono la causa di tutto ciò che esiste. Io sono il tronco di tutto ciò che esiste. Io sono le fondamenta di tutto ciò che esiste. Io sono la radice dell’esistenza. Io sono “il nucleo” perché Io contengo tutti i fenomeni. Io sono “il seme” perché Io do la nascita a tutte le cose. Io sono “la causa” perché tutto viene da me. Io sono “il tronco” perché le ramificazioni di ogni evento partono da me. Io sono “le fondamenta” perché tutto poggia su di me. Io sono chiamato “la radice” perché Io sono tutte le cose». Occorre sottolineare che anche nel Buddhismo Vajrayana non è presente il concetto di un Dio creatore.

Visione ebraica

Nella religione ebraica e nell’Antico Testamento Dio è visto come l’Essere Supremo, Creatore, Autore e Causa prima dell’universo, Governatore del mondo e degli uomini, Giudice supremo e Padre, la cui giustizia è temperata dalla misericordia, i cui propositi sono realizzati da agenti prescelti, che possono essere sia individui sia nazioni. Dio comunica la sua volontà attraverso profeti e altri canali stabiliti.

I nomi ed i titoli di Dio
Per approfondire, vedi le voci Nomi di Dio nell’ebraismo e Tetragramma biblico.

Dio traduce l’ebraico El (nome anche di una divinità fenicia), Eloah, ed Elohim (grammaticalmente plurale, da cui varie ipotesi su di un politeismo originario). Si trova nei testi che lo studio filologico fa risalire alla corrente eloista del Pentateuco. La stessa radice si ritrova nell’ebraico e poi cristiano Elia e nell’attributo di Gesù come Em-anu-el (Dio-con-noi); ed anche nell’islamico Allah. A testimonianza dell’origine comune di cristianesimo, islam ed ebraismo, i loro nomi di Dio condividono la stessa origine.

Il nome che appare più spesso nella Bibbia ebraica è quello composto dalle lettere ebraiche ? (yod) ? (heh) ? (vav) ? (heh) o Tetragramma biblico (la scrittura ebraica è da destra a sinistra ).

L’ebraismo insegna che questo nome di Dio, pur esistendo in forma scritta, è troppo sacro per essere pronunciato. Tutte le moderne forme di ebraismo proibiscono il completamento del nome divino, la cui pronuncia era riservata al Sommo Sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme. Poiché il Tempio è in rovina, il Nome non è attualmente mai pronunciato durante riti ebraici contemporanei. Invece di pronunciare il tetragramma durante le preghiere, gli ebrei dicono Adonai, cioè “Signore”. Nelle conversazioni quotidiane gli ebrei dicono HaShem (in ebraico “il nome”, come appare nel libro del Levitico XXIV,11) quando si riferiscono all’Eterno.

Nelle lingue germaniche Dio è identificato con il Bene, anche se con il tempo probabilmente è andato perso il senso comune di quest’origine etimologica: infatti, l’inglese God e il tedesco Gott hanno la stessa origine degli aggettivi “good” e “gut” (“buono” e “bene”).

Dalla monolatria al monoteismo

La fede del popolo ebraico è in un primo momento un culto di monolatria (conosciuto anche come enoteismo): ogni popolo ha il suo Dio, ma il Dio del popolo ebraico è l’unico che Israele adora e serve. Sono eco di questa concezione passi biblici come quelli che dicono: “Il Signore è il nostro Dio, il più grande di tutti gli dei”. Ci si riferisce a lui come il “Dio dei nostri padri”, “il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe”.

È solo al tempo dell’Esilio babilonese (VI secolo AC) che Israele passa della monolatria al monoteismo: c’è un solo Dio, tutti gli altri sono apparenza.

Gli “attributi” di Dio

Il Dio degli ebrei è creatore di tutte le cose, che ha plasmato dal nulla.

Il profeta Ezechiele, rappresentando la maestosità del Creatore e della sua perfetta organizzazione in un simbolico carro celeste, parlò della presenza di quattro creature viventi, cherubini, ai lati di questo carro. Ogni creatura aveva quattro facce che rappresentano i quattro principali attributi di Dio. In particolare le figure descritte da Ezechiele sono:

* una faccia d’aquila; che simboleggia la profonda sapienza di Dio (Proverbi 2:6);
* una faccia di toro; che con la sua leggendaria potenza ben raffigura l’onnipotenza di Dio (Giobbe 37:23);
* una faccia di leone; simbolo della coraggiosa giustizia di Dio (Deuteronomio 32:4);
* una faccia d’uomo; simbolo dell’ amore di Dio, in quanto l’uomo è l’unica creatura in grado di manifestare intelligentemente questa qualità.

Per approfondire, vedi la voce Attributi di Dio (Bibbia).

L’azione di Dio nella storia

Il Dio degli ebrei è un Dio impegnato in loro favore (all’inizio), e verso tutti gli uomini (tempi più tardi).

Israele nasce come popolo quando sperimenta che Dio lo libera della schiavitù d’Egitto. Da quel momento in avanti Dio è colui che dice “presente” (La radice del nome è la stessa radice del verbo essere coniugato al presente indicativo = Io Sono = Io sono qui con te), ed è al suo lato per accompagnarlo e salvarlo.

Anche le circostanze dolorose, come cadere in mano dei nemici o l’Esilio babilonese, sono interpretate come un’azione di Dio che corregge il suo popolo a causa dei suoi peccati.

Bibbia e ateismo

Nella Bibbia l’esistenza di Dio non viene dimostrata ma presupposta, non ci sono tentativi di dimostrare la sua realtà, poiché nell’ambito biblico lo scetticismo filosofico appartiene ad una fase del pensiero generalmente posteriore a quella coperta dai libri biblici. Solo nel Qohelet o Ecclesiaste e nei salmi 14, 53 e 94, troviamo tracce di una qualche tendenza pessimista che può far pensare, da molto lontano, all’ateismo moderno. Le controversie dei profeti anteriori non trattano mai del problema dell’esistenza o non esistenza di Dio, ma le loro polemiche sono dirette a provare che Israele, in ogni tempo disponibile ad accettare e adorare questo o quel dio, è sotto l’obbligo di adorare il Signore e nessun altro. Si disputa del modo in cui si debba adorarlo, ma non della sua natura.

Visione cristiana

Nella professione di fede ebraica, condivisa anche dalla Chiese cristiana, si afferma l’unicità di Dio (monoteismo). Tuttavia viene presa alla lettera anche l’affermazione di Gesù “chi vede me vede il Padre” (Gv 14,9). Nei primi concili ecumenici, a partire dal IV secolo, si cerca di razionalizzare questo paradosso. Nel Credo niceno-costantinopolitano si professa un solo Dio, Padre onnipotente, creatore dell’universo e di ogni cosa, visibile o invisibile.

Il Credo però prosegue dichiarando che Gesù Cristo è “Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”, che è consustanziale a Dio, che al tempo stesso possiede la natura umana, e che anche lo Spirito Santo è Dio. Si viene a definire la dottrina trinitaria, una delle dottrine che separa il cristianesimo dalla radice ebraica da cui è derivato.

Le principali Chiese cristiane concordano nel parlare di mistero cristologico e mistero trinitario, ritenendo ineffabile la natura profonda di Dio, e che perciò fosse necessaria una rivelazione da parte di Dio stesso, non potendo la ragione umana arrivare a dedurlo.

Queste dottrine sono condivise dalle tre maggiori forme di Cristianesimo: Cattolicesimo, Ortodossia e dal Protestantesimo maggioritario. La sua definizione ebbe luogo, come detto prima, a partire dal IV secolo, a seguito della disputa fra la chiesa “Ortodossa” e l’Arianesimo, ora estinto, che negava la natura divina di Gesù.

Nel cristianesimo il monoteismo e la trascendenza di Dio sono un fatto necessario che però non esclude che oltre a essere nei cieli possa vivere anche in terra (il caso di Gesù e poi dello Spirito Santo fra gli uomini). Nel Vangelo secondo Giovanni si riporta l’affermazione di Gesù che rivela che Lui è nel Padre e il Padre è in Lui; l’evangelista Giovanni parla del Consolatore (paraclito), lo Spirito Santo che il Padre avrebbe inviato ai suoi figli fino alla fine dei tempi dopo la crocifissione, morte e resurrezione di Gesù: tale promessa si compie per la tradizione cristiana e viene ricordata nel giorno di Pentecoste, che celebra la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli.

La sintesi delle Chiese cristiane è quella di un Dio Uno e Trino, un solo Dio e tre persone distinte (Padre, Figlio e Spirito Santo) : tale articolo di fede, definisce Dio come Trinità, insieme alla incarnazione, passione, morte e resurrezione di Gesù sono i misteri fondamentali delle fedi cattoliche protestanti ed ortodosse. Esistono tuttavia anche in ambito cristiano gruppi religiosi storici e confessioni contemporanee che non ammettono la trinità delle persone o l’unicità di Dio e vengono trattati inseguito

I mormoni

Anche i Mormoni sostengono in parte la dotrina Trinitaria, ciò è evidente da alcuni passi presenti nel libro di Mormon, e nella “Dottrina e Alleanze”

Dio il Padre Eterno, il suo Figlio Gesù Cristo e lo Spirito Santo sono un solo Dio, infinito ed eterno, senza fine. Amen.[DeA 20:27-28].

Joseph Smith all’inizio della primavera del 1820 narra di aver visto il Padre e il Figlio e nel suo racconto spiega che il Padre e il Figlio sono uomini e hanno corpi di carne e ossa altrettanto tangibili quanto i nostri, ma glorificati e perfetti.

Solo lo Spirito Santo è un Personaggio di spirito. [Dottrina e Alleanze 130:22-23. ][DeA 20:27-28]. Giovanni 17,21-23 (Bibbia); 2 Nefi 31:21; 3 Nefi 11:27, 36. (Libro di Mormon).. Sempre a Joseph Smith, Gesù stesso spiega che lui e il Padre sono un solo Dio: “Poiché ecco, in verità io vi dico che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono uno; e io sono nel Padre, e il Padre è in me, e io e il Padre siamo uno.” [dal Libro di Mormon 3 Nefi cap 11 versetto 27]

Visione islamica

Nell’Islam Dio (in arabo Alla-h) è l’Essere Supremo che ha creato e seguita a creare l’universo e ogni cosa in esso contenuta. Per quanto riguarda il tempo l’Islam considera che vi sia una perfetta identificazione con Dio e che, quindi, non si tratta di una Sua creazione ontologicamente distinta.

Dal convincimento che ogni cosa che sembra esistere – ivi compresa la materia bruta – è in realtà pervasa dallo Spirito di Dio ne deriva che anche gli atti umani sono opera del Creatore e che l’uomo ne abbia al massimo il “possesso” più che la “proprietà“, avviando una discussione estremamente ardua sui limiti dell’azione umana che potrebbero portare a una sorta di fatalismo (tutto è determinato da Dio, tutto “è scritto” da Dio nel Suo Libro, il Corano, che s’identifica nella Sua parola, attributo non distinguibile e diverso dall’Essere supremo e che dunque è eterno a parte ante e a parte post).

A Dio non è possibile contrapporre in alcun modo un principio del Male perché questo porterebbe a una concezione dualistica del mondo. Nell’Islam, che è assolutamente monistico lo spazio riservato al Maligno (Shayta-n, Ibli-s) è estremamente ridotto e quasi insignificante e la stessa natura “di fuoco” del diavolo non è neppure assimilabile a quella “di luce” degli angeli. Il Bene è Dio e la Sua la Volontà e il Male la negazione di Dio e il disubbidirGli. Il credente (mu’min) deve essere pertanto un muslim”, ovvero un sottomesso assoluto al comando di Dio.

Dio è assolutamente inconoscibile dall’uomo e quello che è dato sapere di Lui deriva direttamente dalla Sua Rivelazione testuale. Secondo l’Islam, Dio ha dato la Sua prima disposizione volitiva ad Adamo che è nell’Islam primo uomo e primo profeta. Nel prosieguo delle generazioni il tempo e l’azione talora maligna di alcuni uomini ha corrotto o falsato tale Rivelazione e Dio ha per questo motivo seguitato a mandare Suoi Inviati e Suoi profeti per riproporre l’insieme della Sua volontà. Di questa lunghissima catena profetologica Muhammad (in italiano Maometto), costituisce l’ultimo anello. Dopo di lui non vi sarà più alcun Inviato o alcun profeta e chiunque dovesse dichiarare riaperto il ciclo profetico si metterebbe automaticamente al di fuori di uno dei pochi dogmi islamici (come è avvenuto con la Ahmadiyya di Lahore o con i Drusi o con i Nusairi, solo per fare alcuni esempi).

L’onnipotenza, l’onnipresenza, l’onniscienza di Dio si accompagnano alla Sua infinita misericordia e generosità, motivo per cui non si potrà mai asserire che Dio “è tenuto” a punire i malvagi con una pena eterna mentre si può affermare che un premio eterno è stato destinato dal Creatore alle Sue creature a Suo totale piacimento. Un passaggio teologicamente accettato afferma pertanto che l’Inferno non sarà eterno per i musulmani ma, a rigor di logica, l’eternità della pena non si potrà presupporre e pretendere neppure per il resto dell’umanità, perché questo sarebbe porre un inammissibile limite all’onnipotenza divina.

I nomi di Dio nell’Islam

Nello stesso Corano L’Essere supremo rivela di avere i nomi di Alla-h e di Rahma-n ma è chiaro che tali nomi possono essere perfettamente resi dal termine Iddio (“il” + “Dio”) nella lingua italiana. Una lettura anodina del Corano induce molti musulmani a pretendere l’uso del termine arabo per chiamare il Creatore, anche quando si usi una lingua diversa dall’arabo ma a tale scelta si possono contrapporre due osservazioni. La prima riguarda il rischio di tracciare una linea concettualmente troppo differenziata fra il Dio ad esempio ebraico, quello islamico e quello cristiano, con un sottile rischio culturalmente “razzistico”. La seconda concerne il fatto che, dando ragione a questi assertori dell’obbligatorietà dell’uso del termine “Alla-h”, si dovrebbe per conseguenza usare il termine “God” o “Gott” quando si volesse parlare del Dio di cui parlano gli anglicani e di quello che adorano i luterani e del Tetragramma quando si voglia parlare del Dio dell’Antico Testamento.

La cultura islamica parla di 99 “Bei Nomi di Dio” (al-asma-‘ al-husnà), che formano i cosiddetti nomi teofori, abbondantemente in uso in aree islamiche del mondo: ‘Abd al-Tahma-n, ‘Abd al-Rahi-m, ‘Abd al-Jabba-r, o lo stesso ‘Abd Alla-h, formati dal termine “‘Abd” (“schiavo di”), seguito da uno dei 99 Nomi divini anzidetti.

Gli attributi di Dio dell’Islam

Gli attributi divini (sifa-t ) – coeterni ma senza che si possa alterare l’unità di Dio («né Lui né altro da Lui», affermano i teologi musulmani sunniti) – sono (per quanto riguarda quelli “personali”, ossia nafsiyya): la vita, la scienza, la potenza, la volontà, l’udito, la vista e la parola, cui una parte del pensiero teologico sunnita aggiunge la persistenza.

La questione dell’increatezza del Corano deriva dalla polemica riguardante detti attributi, perché all’affermazione che la Rivelazione era stata creata da Dio al momento della Sua creazione del genere umano si contrappose la tesi vincente del hanbalismo secondo cui, essendo la Rivelazione “parola di Dio” (kalimat Alla-h), ne derivava una sua eternità (argomento affrontato in modo pressoché identico nell’Ebraismo per quanto riguarda la To-ra-h).

Il nome divino nella Bibbia

Gli ebrei si rifiutano di pronunciare il nome di Dio presente nella Bibbia, cioè ???? (Tetragramma biblico) per tradizioni successive al periodo post esilico e quindi alla stesura della Torah. Gli ebrei oggi durante la lettura del vecchio testamento o Tanach quando trovano il Tetragramma (presente circa 6000 volte) non provano a pronunciarlo ma lo sostituiscono con la parola Adonai, “Signore” oppure con la parola Hashem che significa “Il nome”. Con il tempo l’esatta pronuncia del tetragramma si è persa. Sulla pronuncia di ???? vedi la voce Tetragramma biblico. La forma Yehowah è la vocalizzazione di alcuni studiosi detti masoreti che nel Medioevo produssero una versione della Bibbia vocalizzata. Da questa forma deriva l’italiano Geova, nome ora quasi esclusivamente utilizzato dai Testimoni di Geova.

Grecia antica

I Greci si posero anche il problema dell’esistenza di Dio e Aristotele giunse a dimostrarne la necessità filosofica come motore immobile, causa prima non causata.

Visione manicheista

Molte posizioni riconducono la lotta fra il bene e il male a una lotta fra due forze di pari livello, eterna e senza un vincitore. Questa teorizzazione è sentita in varie sophie orientali e ha avuto una dottrina densa di conseguenze nel manicheismo. Il profeta Mani, rifacendosi alle idee di Zarathustra (latinizzato in Zoroastro), nella Persia del VII secolo AC (odierna Iran) fece molti proseliti con una dottrina che prevedeva un’eterna contrapposizione fra il principio del bene e del male: Ahura Mazda e Arimane.

L’idea di due princìpi a fondamento dell’essere contrastava con il pensiero greco, che ricercò delle spiegazioni non dicotomiche all’esistenza del male, pensando il non-essere come qualcosa di relativo, minore e inevitabile conseguenza che necessitava dell’essere-bene per esistere, mentre l’essere poteva evitare il non-essere restando Uno e può evitarlo tornando in sé.

Note

1. ? Il termine è connesso con la radice *div/*dev, che ha il valore di “splendente, brillante” (si confronti il greco – e il genitivo di ???? [Zeus] è ???? [Diòs] -, il sanscrito dèvas e l’aggettivo latino divus)
2. Walter Henry Nelson, “Buddha: His Life and Teaching”. Penguin Putnam, 1996,
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