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Progetti esteticamente perfetti, di rigore metafisico, pervasi dalla perfezione immutabile dei boschi di betulle e dalla quiete solenne di una terra estrema dall’animo ambientalista.

 

La Finlandia è una terra estrema dall’animo ambientalista, dove una natura incontaminata, fatta di immensi boschi e di gelide acque, è per gli abitanti esperienza quotidiana, e poiché i luoghi in cui si cresce determinano quello che Lorenz definisce imprinting, non a caso il rapporto con la luce, con il paesaggio e con il contesto naturale è il tema fondamentale della progettazione dei maggiori esponenti dell’architettura di questo paese.

L’architettura finlandese si pone all’attenzione del resto del mondo per la prima volta nel 1900, con un padiglione nazionale progettato per l’Esposizione Universale di Parigi, e da allora i padiglioni diventano un tipico mezzo di comunicazione attraverso il quale la Finlandia si fa conoscere anche in campo architettonico.

Alvar Aalto concilia il rigore geometrico dell’architettura razionalista con la fluidità di forme empiriche mutuate dalla natura, dando origine a quella che sarà l’architettura organica finlandese, nelle sue linee generali.

Da allora la direzione-guida per gli architetti finlandesi è quella della economicità e funzionalità nella costruzione di ambienti gradevoli, ecologici, a misura d’uomo, con un’attenzione particolare per le finalità d’uso di progetti che possano essere realizzati con l’impiego delle tecnologie disponibili e di materiali abbondantemente reperibili nell’ambiente di riferimento (basta pensare all’uso del legno e alle tecnologie del compensato curvato).

 

E’ su queste premesse che Eero Saarinen testimonierà la presenza della cultura finlandese negli Stati Uniti, sia nel campo del design, sia in quello più specificatamente architettonico, con un’estrema coerenza di linguaggio tra i due aspetti della sua attività, riferibile sostanzialmente all’uso indiscriminato della linea curva, con tutto quello che la scelta significa: è un tema già anticipato da Aalto in molte delle sue progettazioni, tra le quali il famoso padiglione dell’Esposizione di New York del ’39.

Per inciso, richiamo una frase di Oscar Niemeyer: – Non è l’angolo retto che mi attira. Neppure la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Quello che mi attira è la linea curva, libera e sensuale. La linea curva che ritrovo nelle montagne del mio paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle nuvole del cielo, nel corpo della donna amata. L’universo intero è fatto di curve. L’universo curvo di Einstein – per ribadire il fascino che la linea curva esercita da sempre sulla fantasia creativa di ogni artista.

 

La celebre serie dei mobili con piedistallo circolare, le sedie a calice Tulip, gli elementi creati per la Knoll International, sono la concretizzazione di un concetto organico del design, dove viene risolto in termini di estrema pulizia formale ed essenzialità progettuale ciò che Saarinen chiamava il problema del “bassofondo delle gambe”, in un processo di progressiva essenzializzazione del design della seduta (a lui si deve anche l’invenzione della sedia a scocca, con sedile e schienale in un unico pezzo).

Saarinen, come tutti i designer nordici, non ricerca un effetto di impatto immediato, crea prodotti esteticamente perfetti, di un rigore metafisico, pervasi dalla perfezione immutabile dei suoi boschi di betulle, dalla quiete solenne dei suoi ampi orizzonti, sublimando così i limiti di una interpretazione tecnicistica che pone una relazione di dipendenza tra la forma ed il materiale utilizzato e che riguarda da vicino molte delle progettazioni non solo di Saarinen, ma anche di Marcel Breuer, di Mies Van der Rohe, di Aalto, di Charles Eames.

 

In campo architettonico Saarinen si può collocare nell’ambito del movimento espressionista, oggi convertito in una action architecture , cito Bruno Zevi, che prende le mosse dall’action painting di Pollock e dai suoi dipinti all over (vedi ad esempio Frank Ghery), espressionismo che pareva definitivamente superato dalle teorie razionaliste e che invece ricompare clamorosamente nell’impianto ondulato della parete lignea del padiglione di Alvar Aalto del ’39, monumento critico all’International Style e riaffermazione di una poetica che pare coincidere con una categoria dello spirito.

Tanto che, agli inizi degli anni ’50, lo stesso Le Corbusier, con un gesto clamoroso e radicale che mette in crisi la definitività delle proprie teorie, realizza la rivoluzionaria chapelle di Ronchamp, distruggendo così, in un turbine di linee curve, il codice razionalista, superato e frantumato in quella che Manfredo Tafuri chiama ‘spazialità labirintica’, con significato borgesiano.

 

In questo clima agisce il Saarinen architetto e realizza la sua opera più famosa, il terminal TWA dell’aeroporto Kennedy di New York (1956-62).

La struttura sorge “con i piedi ben piantati sulla terra”, come raccomandava ai collaboratori quando progettava i suoi grattacieli, e dalla terra si eleva, come i suoi tavoli e le sue sedie, in modo graduale, da una solida base estesa che si riduce salendo secondo un diagramma curvilineo (immediato il rimando ad Antonio Gaudì), a suggerire un moto ascensionale continuo, fluido e lento come il processo di crescita di un albero dei boschi nella sua terra d’origine.

La tecnologia viene qui utilizzata con valenza etica, come mezzo per recuperare un rapporto con la natura, intesa non solo come modello da imitare o da asservire, ma come modello operazionale

L’edificio rinvia, al primo colpo d’occhio, all’idea del volo: dispiegando grandi volte a conchiglia pare pronto per il decollo, pronto per una metamorfosi che lo tramuti in gigantesco uccello, esprimendo fin dal primo impatto l’idea di un’organicità totale, di forma e contenuto, un segnale forte dell’ “essere in un luogo”.

Indubbiamente il danese Jòrn Utzon pensa a Saarinen quando, dieci anni dopo, progetta la sua Opere House di Sydney.

L’esterno e l’interno paiono scolpiti dal vento o, come certe rocce del deserto, levigati da millenni di tempeste, a proporre in chiave naturalistica il tema della fluidità di uno spazio che sembra creato da un fiume che scorre, scavando continuamente il suo alveo all’interno della struttura.

Coerentemente, i percorsi si presentano agevoli, piacevolmente privi di schemi apparenti, la luce scivola sulle pareti curve con effetti inusuali, configurando ad ogni ora del giorno nuovi scenari, accostando così, quasi a livello subliminale, la struttura ai parametri naturali e spontanei della realtà, sfumando il rapporto tecnologico-funzionale nel rapporto uomo-architettura-natura, in un linguaggio emancipato da costrizioni compositive, dalla simmetria, dalla perpendicolarità, dalla linea retta e dalla complanarità, un linguaggio senza codici prefissati né aprioristici tabù.

Se osserviamo come le tendenze attuali dell’architettura privilegino sempre più la non linearità, la decostruzione, per usare un termine controverso, la organicità complessa di strutture libere, la capacità di perseguire modelli estetici sempre più vicini ai caratteri ambientali della natura, se infine siamo d’accordo con Jane Jacobs che “la monotonia è una grande tragedia”, allora riusciremo a capire appieno quanto questo uomo del nord sia stato sensibile anticipatore dei nostri tempi, dei sogni e delle fantasie di tutti noi, che abitiamo sulla terra. (Vilma Torselli)