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[…]Beuys, le cui opere sono da tempo conosciute in Italia, fin dall’inizio dichiarò di non avere in mente alcuna « teoria » per la Biennale e che gli sarebbe piaciuto fare qualcosa di semplice, probabilmente una scultura. « Fermata del tram » è il risultato. II monumento in ghisa è composto di alcune sculture fatte precedente­mente, 3 o 4 elementi, che non saranno peltro o grasso ma metallo e acqua, indicheranno il ricordo dell’artista di una fermata di tram nella sua città natale di Kleve. L’inversione del titolo di una mostra recente « Media al posto dei Mo­numenti » gli venne in mente nel bel mezzo del Padiglione: « Monumenti al posto dei Media ». Con le sue « Stiicke/Unità » Gerz è sempre più volto ad indagare, i rapporti che intercorrono fra parole ed oggetti. II Centauro, un ibrido, mezzo cavallo e mezzo uomo, esemplifica que­sta dialettica. Egli è il simbolo del « mezzo » e Gerz descrive questa « cosa intermedia », che trova difficoltà ad abbandonare il suo ruolo conciliatorio. In un dipinto di Carlo Carrà del 1917 — esposto alla 24ma Biennale di Venezia nel 1948 — Gerz scopri delle analogie con il suo Centauro; il dipinto di Carrà si intitola « Il Cavaliere Occi­dentale » e Gerz lo descrive: « Là un cavaliere sta totalmente irrigidito su un cavallo, circon­dato da mura ». L’apertura attraverso cui sono tese le corde elastiche di Ruthenbeck era ancora chiusa quan­do visitammo Venezia. Invece di un passaggio c’era una parete compatta. Il titolo della sua opera « Doorway »— la porta come connessione, passaggio, costrizione — rimanda ad una serie di temi a cui Ruthenbeck si è interessato. Que­sto « passaggio » attraverso cui non si può ancora passare ma che si può solo vedere, sta a dimostrare che Ruthenbeck non intende aprire un nuovo raggio d’azione ma chiudere il pas­saggio — sottrarlo cioè all’uso. Egli sottopone la porta ad un’analisi, come se fosse una illu­strazione per un manuale di fisica. Non scul­ture, non mezzi, ma funzioni dell’e ambiente ».

Il 27 novembre 1975, all’aeroporto Marco Polo vi­cino a Venezia, successe un fatto imprevisto: gli indicatori del controllo elettronico comincia­rono a lampeggiare quando Beuys attraversò il dispositivo — un coltello che portava in tasca non era compatibile con il regolamento di si­curezza dei passeggeri. Il rituale della perqui­sizione operò il trapasso Biennale/vita di tutti i giorni in un aeroporto civile.

Ci separammo a Milano. Beuys e Ruthenbeck tornarono a Dùsseldorf, Gerz a Parigi.

Klaus Gallwitz

Antonio Gasbarrini

Trascrizione dalla registrazione di un intervento convegnestico di  Antonio Gasbarrini ( fine anni Novanta)

Comincio ad introdurre questa conversazione sul rapporto esistente tra scultura, territorio urbano, territorio naturale, in quanto il ritardo nella nostra regione, ma anche italiano e per certi versi europeo su queste problematiche, è notevole.

Voglio qui ricordare uno dei più grandi artisti contemporanei. Ha lavorato anche in Abruzzo, a Pescara: Joseph Beuys. Questo perché Beuys nella sua realtà territoriale, nel momento in cui in Germania c’era ancora la divisione del Muro di Berlino, usava la sua intelligenza per coinvolgere la città, i cittadini delle due Germanie e del mondo intero, in un progetto unitario che vedesse proprio nella riqualificazione del territorio urbano l’epicentro di una nuova coscienza. Quello che mi ha colpito della sua rivoluzione, è l’operazione-installazione di “7.000 querce” fatta a Kassel che consiste nell’affiancare, in una città degradata, una stele ad una quercia, Questo per dimostrare innanzitutto il rapporto dialogico esistente tra arte e natura, e, per far vedere in progress non già la scultura come la percepiremmo in un ambiente chiuso, ma come la natura man mano prevarica, cresce, si espande, riempie di verde la città con il memento di quelle sculturine che sono rimaste, nella loro fissa immobilità, testimoni dell’implacabile importanza dell’arte all’interno di un contesto di riqualificazione urbana. Accanto a Beuys voglio rammentare un’altra iniziativa tenuta da alcuni anni a Munster, una cittadina medioevale tedesca molto simile a L’Aquila, dove i protagonisti più importanti della scultura contemporanea (63 artisti) sono affluiti di volta in volta.

Tutta la città era invasa con sculture ed altre opere ambientali, alcune della quali sono rimaste poi in esposizione permanente. Ripercorrere, come ho personalmente fatto, questo spazio urbano a piedi, con l’impatto di interventi strani quanto straordinari (penso a Serra), significava imbattersi con un eclettismo infinito. Nel senso che accanto alla scultura tradizionale nelle sue volumetrie tridimensionali,  c’era l’installazione pop o la video-scultura: un autentico scossone visivo che dimostrava – con il cortocircuito instaurabile tra immaginazione ed arte contemporanea in tutte le sue forme espressive (purché intelligenti, motivate e concettualmente intelligenti) – la validità della seguente equazione: lingua e  contemporaneità hanno la stessa legittimità e la stessa onorabilità di quella del passato.

Quanto all’arte contemporanea, dal primo Manifesto futurista datato 1909, è passato circa un secolo. Ma del Futurismo, dell’architettura di Sant’ Elia, delle sculture dinamiche di Boccioni cosa è “trascorso”? Di tutte le avanguardie storiche (Dada e Surrealismo), di quelle neo degli anni Sessanta e successivi, cosa è rimasto? Poco e niente, Ed allora bisogna mettere in crisi il modello di organizzazione del territorio così come è concepito oggi con queste immonde periferie che tutti conosciamo, proprio attraverso la cattiva coscienza dell’arte contemporanea. La cattiva coscienza di un’arte che per citare e dirla come Adorno, non ci rassicura, non ci accompagna, ma ci interroga. In quanto una scultura monumentale o meno, che sia inserita in un ambiente sia esso urbano o naturale, è un interrogativo, è un problema, dato che la lingua cambia in continuazione. Ad esempio: quanti nuovi termini sono nati con Internet e l’internettese. ed in relazione a questo, cosa può una realtà in fieri come questo Museo in progress? Molto, in quanto le rivoluzioni sono state sempre fatte dai singoli. Quello che è importante è l’accensione della scintilla. E per quanto riguarda l’ Abruzzo, mi limito a ricordare alcune esperienze di questo genere (ma non museali), come le varie Rassegne e simposi di scultura da me curati sin dal 1988 a l’Aquila a Costa Masciarelli, le varie Biennali di Penne degli anni Novanta o il Simposio interdisciplinare di Notaresco. Iniziative di tal genere si possono contare sulle dita di una mano; possiamo aggiungere i Simposi di Atri, Pescasseroli e Civitella Roveto. Perché il bello dell’arte è questo: più ce n’è, meno ce n’è, in quanto l’arte è una finestra aperta sul mondo. In relazione a questo, il museo che si sta realizzando è uno spazio vitale che si proietta nel futuro: per slargarlo.

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