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Dal Grande Vetro di Duchamp ai piccoli “grandissimi vetri” di Ennio Di Vincenzo: ovvero dalla Quarta dimensione ai Frattali.

 

di Antonio Gasbarrini

All’eufonica voce di Ennio

Tra le opere più significative della Pinacoteca internazionale del Centro Documentazione Artepoesia Angelus Novus a L’Aquila, faceva bella mostra di sé (prima del tragico sisma del 6 aprile 2009) una teca di contenute dimensioni firmata dalla segnica creatività di Ennio Di Vincenzo. Dalla sua superficie vitrea antisfondamento, gli accidentati percorsi germinati dal colpo (colpi?) inferti dall’artista, non conducevano da nessuna parte. In apparenza un “fragmentato” labirinto rizomatico. Nella sostanza la tangibile metafora di non rimarginabili ferite. Anche dell’arte e nell’arte.

Una schematizzata icona bianca, imperturbabile nella sua aura benjaminiana, giace nel fondo di questo quadroggetto. L’indicibilità e l’intransitabilità dell’opera, quindi. L’offesa, il tentativo non riuscito dello sfondamento del vetro di protezione, aveva certificato così la “resistente” controffensiva d’una lingua (dell’arte) in continuo movimento e sommovimento.

Anche se il dio di Einstein non ha mai giocato con i dadi, l’imperante caso ha voluto che Mr. T  (alias il Sig. Terremoto protagonista di una serie di miei racconti “cavati” dalle macerie) non infierisse ulteriormente su quelle riconoscibilissime impronte segniche. Detto in altri termini, nessuna ulteriore rottura è stata aggiunta dal terrifico personaggio. Il quale, invece, ha ridotto a mal partito l’intero spazio architettonico sei-settecentesco del Centro Documentazione ubicato in piena zona rossa della città devastata: squarciando muri, lacerando tele e disegni, seppellendo libri e cataloghi. Chiudendolo, perciò, fisicamente, ma non operativamente. Dopo venti anni d’una intensa attività orientata esclusivamente nel proporre le poetiche più pregnanti e innovative di matrice avanguardista storica e neo (dalle arti visive alla musica elettronica, dalla letteratura al teatro e via dicendo). Qui Ennio era di casa. Vi aveva tenuto varie mostre personali, partecipando anche a qualificate rassegne di gruppo. Del suo solare percorso artististico, anche nella veste di art director dell’Angelus, posso pertanto testimoniare con cognizione di causa. Spendendo qualche riga sui quadrioggetto in argomento.

Non posso non partire da una semplice constatazione: la ricerca ultracinquantennale di Ennio Di Vincenzo è inseribile a pieno titolo negli snodi più significativi dell’arte contemporanea, post-pop in particolare. Con connotazioni anche etiche ed ecoestetiche (rinoceronti e farfalle costituiranno uno dei suoi stilemi più riconoscibili).

Era molto interessato ai rapporti tra arte e scienza. Ne discutevamo per ore e ore. Fu particolarmente colpito dalla rassegna da me curata all’Angelus “L’arte d’Avanguardia e i paradossi della IV dimensione e delle geometrie non euclidee” (1996) il cui catalogo elettronico è ancora disponibile su internet all’indirizzo www.angelusnovus.it

Per dire qualcosa, nei dintorni della sua altissima arte, mi riallaccerò telegraficamente a quelle discussioni.  

Gran parte dell’Avanguardia dei primi due decenni del Novecento ha ruotato attorno alla nuova visione della vita e dal mondo slargata dalle scoperte della (e) relatività einsteiniana, il cui postulato fondamentale ha a che fare con il movimento della luce nel tempospazio. Nessuna entità macrofisica e microfisica può superare nel suo viaggio nel vuoto la “velocità di crociera” di circa 300 mila chilometri al secondo. Per primi i Cubisti avevano cercato di aggirare la finta tridimensionalità euclidea rinascimentale, smembrandola. Duchamp, poi, nel Grande Vetro aveva invano tentato di visualizzare le ombre proiettive della Quarta dimensione. Anche in quest’opera magistrale continuava a dominare, nelle criptiche allegorie d’una sposa sospesa, o meglio appesa al gancio del labile confine calore/frigidità, una ostentata “bidimensionalità cubista” schiacciata su se stessa. Il rinnegamento della cartesiana res extensa ed il trionfo della res cogitans, quindi. O Arte concettuale, che dir si voglia. Il Grande Vetro quale punto di non ritorno dell’Avanguardia, anche per i suoi indubbi esiti mentali? Mah…

Stando ai trasparenti quadrioggetto di Ennio Di Vincenzo, la sua più recente ricerca partiva da un diverso presupposto: l’indistruttibile fisicità analogica dell’opera, nonostante i virali attacchi sferrati dall’immaterialtà digitale della matematica binaria. Reale vs. virtuale, perciò.

Mani, le sue mani, che continuavano a forgiare la materia con la stessa perizia di un artigiano o ad incidere lastre su lastre (hardware), a dispetto di dita pigianti tasti o sfioranti magici schermi su cui si adagerà o muoverà la caleidoscopica, ermafrodita forma generata da algoritmi (software).

Il substrato poetico, ma anche scientifico di quelle fratture incompiute, va ricercato pertanto nella geometria frazionaria di Mandelbrot. Quella assai più veritiera delle finte prospettive euclidee. Dominata, nella infinita successione delle sue forme autosomiglianti, da frattali che hanno rivoluzionato il pensiero (e le opere degli ultimi decenni, digitali in particolare): «Le nuvole non sono sfere, le montagne non sono coni, le coste non sono cerchi e una corteccia non è liscia, né un fulmine viaggia in linea retta» (Mandelbrot, appunto. “Sognatore-veggente” d’impensabili forme, appena scomparso. Onore alla sua spaziosissima fronte ed al suo mite sorriso).

 “Impronte digitali dei frattali”, potremmo allora definire le errabonde nervature intersecate casualmente sulla superficie vitrea da forze della natura incontrollabili e incontrollate. Gli zigzaganti segni lasciati sulle facciate superstiti nel terremoto aquilano ne sono una vivida testimonianza. Nervature controbilanciate dalla sobria figurazione mappale intravedibile nel fondo. Anche se in questi quadrioggetto la visione finale è frontale, non altrettanto può dirsi per la sua genesi ideativa imperniata sulla resa prospettica “dal sopra in giù”. La stessa di un’aquila, la sua L’Aquila, pronta a predare un agnello, vittima sacrificale di uno sguardo aereo che non perdona. Lo stesso di Ennio Di Vincenzo.

Per convincersene, si faccia un esperimento mentale alla Einstein. Si immaginino Una candida neve, Sogno di una notte di mezza estate, Ultimo nido, La casa del Grande Pavone, Bianco Vento solare, Vento Gelido, adagiati per terra, anziché appesi al muro. Le linee frattaliche ora, non scorrono più in superficie, ma perforano il vetro. Interagendo così, con più veemenza, con l’icona sottostante.

In Vento Gelido, il fitto reticolo sovrastante gran parte di due irregolari macchie-sagoma scure accostate (ritagliate da lastre metalliche), fa da cerniera tra apparenza e realtà, vicinanza e lontananza, sensazione e emozione al cospetto di uno strambo, inesplicabile “paesaggio dell’anima”.

Le incrinature dovevano essere, per Ennio Di Vincenzo, l’equivalente di brividi non solo corporali o estetici, ma etici. La sua ben conosciuta intransigenza sulla deriva ideologica in atto nel nostro disgraziato Paese berlusconizzato, si sfogava, forse, in quei colpi non-mortali dati sul vetro. Una rivolta silente la sua. Non urlata alla Münch. Per salvare forse, dall’onnivoro cannibalismo mediatico profetizzato da La Société du spectacle (1967, Guy Debord), la “sacralità naturalistica” delle immagini in rilievo “pittoscolpite” in basso.

E per il loro tramite, il ritrovato vigore della nostra vulnerabilissima coscienza antagonista. Da rimettere in corsa: prima che sia troppo tardi.

 

Da L’Aquila terremotata, primi di ottobre 2010  

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