Mer 30 Mar 2011
Cattivi-ma-estri
-made in italy-
Antonio PICARIELLO
I cattivi maestri dominano anni di pena e lasciano scie peccaminose contro cui intere schiere generazionali tentano di porre rimedio alla meglio. Uccidono più i cattivi maestri che i demoni della guerra. Le energie del male sottese alla vita quotidiana in questo di-squilibrato tempo aleggia con continuità linguistica sulle nostre teste dall’abbattimento del muro di M/Berlino venduto poi a pezzi, molto cari, dalle gallerie d’arte occidentali. Va detto che diroccando il muro si è alzata una strana atmosfera estetico scientifica fuoriuscita come una radiazione nucleare incontrollata, originata dalla progettualità, ormai antica del Piano Marshall (European recovery program) uno dei piani politici-economici statunitensi per la ricostruzione europea dopo la seconda guerra mondiale, ma culturalmente e socialmente propagato in Europa al seguito della dissoluzione dell’URSS innescata con Gorba?ëv, premio Nobel per la pace del 1990. Un protagonista eccellente della catena di eventi energeticamente dirompenti che hanno portato alla fine della guerra fredda. Il piano toglieva l’egemonia della cultura artistica alla Francia e la caduta del muro di Berlino toglieva il senso di identità dei localismi impiantati a caso dalla caduta dell’impero romano terminale in Gorba?ëv animato da buonismo intenzionale, ma risucchiato dalla storia costruita dai potenti della terra, quelli del capitale simbolico addetti alla selezione della specie. Il made in Italy, invece, fuoriusciva inconsapevolmente dal solipsismo decadente di G. De Dominicis che porta nel nome il valore del proprio destino immune al sessantotto e ancor più ferreo in difesa, dal passaggio tragico del settantasette, ma fervido e strutturale nel dare la sprona alla mediocrità creativa e farle ritrovare una fraintesa referenzialità che a lungo andare ha comportato danni a ogni principio estetico costruito pezzo per pezzo da pensatori eccellenti. Improvvisamente l’azione solitaria di questo artista ha fecondato le menti deboli degli artisti svigoriti, pronunciando la promessa che avrebbero potuto esistere senza l’ausilio della critica e così si è assistito al teatrino della mediocrità che sfigurava la linea maestra di Wittgenstein, capace di formulare significati transartistici e attribuire alla conduzione del pensiero estetico contemporaneo il senso percepibile della lotta dovuta alla visionarietà creativa tipica degli invasati padri del deserto in cui “un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripertecela inesorabilmente”. Per la letteratura artistica che si finge amica fraterna della filosofia dell’arte tra i tanti problemi, il principale, fissato come chiodo nel muro, è attribuibile all’estetica tradizionale incapace di giustificare l’opera d’arte nella sua singolarità modellata sul desiderio patogeno di ritrovare il codice di lettura attraverso un paradigma universale ed eterno. Così Kant, Fichte, Schelling dormono sulla collina in compagnia di altri missionari del Novecento come l’irrequieta sontuosità di Adorno e di altri che hanno terminato il loro grado esistenziale in forma di elementi da adoperare nelle sperimentazioni officinali o nei laboratori chimici istruiti dall’inumanità della contrazione linguistica del nazional-socialismo tedesco. Molti, come W. Benjamin che con il pensiero di De Dominicis ha qualcosa in comune, per evitare ingenuamente questo stadio, hanno preferito all’aurea artistica il rito funebre volontariamente invocato in prescadenza al naturale corso destinale. Cattivi maestri dunque e missionari dell’arte di cui la selezione storica contemporanea sembra preferire l’azione mediocre in risultanza di forme espressive atoniche, senza loquela, senza capacità di scrittura, senza bibliografie e senza note. Tutto aleggia su un podio labirintico di cui gli artefici economisti ( i selettori della specie) dettano i percorsi e gli acquisti magnetizzando i tragitti con l’imposizione di una dichiarata vanità del nulla cui rispondono i centocinquanta anni italiani magicamente vissuti tra i bottoni avanguardisti delle camice garibaldine e le cerniere industriali preannunciate da un Cavour poco Made in Italy per sottrarre alla vera voce mazziniana che come Benjamin lavorava per l’anima e la verità di una Giovane Europa rapita dal toro “simulatio di-vino” magicamente occultato dalla contemporaneità. SI privilegia la conoscenza inadeguata di Cattelan o i mercanti di superficie formati dalle direttive del vecchio, ma sempre attivo, European recovery program. Ecco brevemente la premessa ironica in stile semplicistico di un L. Beatrice, all’ idea di un Made in Italy riportato dalla voce di quattro artisti più uno in cerca di notificare alle forme intelligenti le attività sostenute dal piglio ironico che distingue le funzioni del gioco dalla perversione macabra dell’apparire. E così il Made in Italy inventa la ricorrenza del secolo e ½, per dare vigore a un’unità italiana offesa dal senso mediocre della creatività messa ad appannaggio dell’apparenza di mercanti selettori di specie che trattano gli artisti, che vogliono essere manipolati, come strumenti che sono di maniera, ma che i mercanti senz’anima avvezzi all’uso delle merci sanno bene adoperare. Si ritorna per forza o per amore come dicono i senesi, ai valori dell’identità degli artisti italiani che è data dall’appartenenza per nascita o per conquista sofferta di una cultura antica segregata nelle cellule territoriali della geografia e della storia Made in Italy. A questi segreti ci si accosta per fede che a volte ricompare nella voce espressiva di un artista fecondo e animista che da anni segue i suoni occulti dell’archetipo trasformando figure primordiali transitate nella visione attraverso l’equilibrio materico del segno richiamato in vita da Mauro Rea. Artista pasoliniano, fautore di simbolismi linguistici appartenenti ai luoghi profondi dell’umano, fatti riemergere con la forza continuativa della ricerca ossessiva dei segni contenuti a volte nelle citazioni o nei recuperi con la complicità sapiente, nevroticamente geniale, di voler superare l’obbligo della gravità, già appannaggio ossessivo di un De Dominicis artista maledetto che per una vita intera ha cercato, senza riuscirci, di sottrarre ai venditori di merce il valore della leggerezza contenuta nel segreto della pittura. Di controcanto la forza creatrice di Mario Serra tocca l’animo e la percezione realizzando senza apparenze quanto lo stesso artista marchigiano ha cercato di attivare in solitudine. Mario Serra domina la scena da sempre con il silenzio e la riservatezza senza uscire però dai canoni ufficiali del sociale. Non ritrae la sua ben tenuta ricerca linguistica dalle variazioni delle opinioni comuni. Le figure apparentemente analogiche alle immagini comparabili all’esperienza umana, coprono il senso magico del pensiero soggettivo costruito con dedizione e tecnica rinascimentale nei laboratori mentali che Serra istruisce, a tempo, per dirimere il carattere delle figure sacre aleggianti dietro la vestizione comune dell’immagine percepita. Così l’immortalità del corpo diventa invisibile frontiera dell’entropia superata con la leggerezza del segno zen, gestuale al moto dell’anima, che appare, a volte, informale, a volte, figurativo, ma che porta nel particolare della composizione la formula liturgica per avvertire lo spirito di una vicinanza cosmica apparentemente simulata da una memoria iconica comune. Le opere di Serra sono vere icone russe, sottratte inconsciamente dal Made in Italy vero alla volontà politica della caduta del muro di Berlino. Sono opere che contengono l’attimo in cui il confine tra libero arbitrio e idea dell’umano esplodono oltre la forma per dare spazio antigravitazionale al moto dell’anima di cui il senso ultimo è la rivelazione di un significato dell’esistenza fatto materia e magnetismo segnico contenuto nelle memorie sottili delle “cose”. Giancarlo Costanzo sperimenta linguaggi che comportano sempre l’idea del messaggio diretto. Una pratica lontana dalle aspettative di De Dominicis, ma vicine alle gradazioni formali della comunicazione diretta intesa come la intendeva negli anni sessanta un Marshall McLuhan attratto intellettualmente dal significato e dal significante incollati come gemelli del senso, affiancati e saldi alla voce del messaggio non generativo, non polare, ma funzionale alla strumentazione che in questo caso, nel caso dell’opera organizzata dalla lingua ricercatrice dell’artista, veste esclusivamente il canale per legare l’ interpretazione visionaria soggettiva ai caratteri strutturali della comunicazione addetta al compito persuasivo dell’informazione contenuta nell’opera. Qui “il mezzo è il messaggio”, il quadro dunque diventa emissione di un racconto in forma di frammenti narrativi che hanno valori informativi ripresi e sintetizzati negli oggetti e nella materia comune che Costanzo adopera come una composizione impaginata giornalistica a dire di volta in volta gli eventi e la cronaca sottoforma informativa in omaggio al Made in Italy contenuto dalla comunicazione dell’agorà quotidiana e collettiva. Franco Sinisi ideatore dell’evento denuncia, dopo aver sorteggiato i canoni del futurismo ritratta il senso geometrico della contabilità contenuta nell’informale codice a barre estraendone la cromatura aurea elencata dal pensiero dorato di Benjamin. Il sorteggio esplosivo del colore diviene per l’artista la misura spaziale entro cui i principi rivoluzionari de le “pointillisme” ritrovano una concettuale contemporaneità limata dall’essenza di un virtualismo vitale che ha compito di appagare la mancanza emotiva chiusa nel flusso tecnologico utilizzato senza meritoria accortezza dalle società telematiche, telecinetiche, catalogatrici meccanicistiche addette alla memoria del supplizio inconscio offerto dalla nanotecnologia in funzione dell’elettromagnetica con cui vestiamo quotidianamente le nostre azioni e i nostri gesti comuni. Quella di Sinisi è una ricerca che rivolge lo sguardo alla divampazione post moderna in cui la geometria euclidea rientra in forma di sortilegio storico che va recuperato per mezzo della profezia istintiva di una nuova visione della forma espressiva addetta al calcolo introspettivo combinato con l’abitudine diffusa dalla globalità. In questo caso, le opere si oppongono al tentativo di esclusione del Made in Italy nel pensiero dinamico occidentale e di Oltre Oceano per favorire un accomodamento della logica virtuale entrata ormai in uso senza la schermatura protettiva della sensazione dettata dalla visione dell’arte. Così la collocazione pittorica informale e riorganizzata da Sinisi propone nuova maniera di concepire l’arte mantenuta salda dal principio che ogni tempo ha i suoi segni e la sua propria realtà concettuale e sensoriale. Manuela Mazzini non a caso resta libera dal pionierismo acclamando la linea e lo spazio compositivo sotto l’egida di un geometrico astrattismo che anche se suona antico riporta le tabelle sinottiche della storia dell’arte alla visione contemporanea. Qui il Made in Italy si ricompone nell’uso comune del simbolo, la stessa bandiera emblema di identità nazionale ritrova nelle opere di Mazzini, dal nome imponente ( giocando) alla costituzione della Giovane Italia, la sua forma comunicativa fatta di geometrie e colori contrassegni e proporzioni auree sfornate dalla storia e catalogate dall’inconscio collettivo che misura adesso il suo grado fedele al valore unitario e cosmico del Made in Italy respirato dalla sincerità dell’arte. Ancora una volta la bandiera nostrana dell’arte sveltola sulla collina. Ci siamo ormeggiati con forza e con amore sulla visione sincera della nostra dovuta identità di arte italiana. Ancora una volta per essere uniti nella funzione dell’arte e della letteratura artistica che le compete.
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