Ven 6 Mag 2011
“Nudità” di TRACKERART epurato dai falsi ladri di gallina (Giorgio Agamben)
Posted by Antonio Picariello under arte/teatroNo Comments
Il pensiero di Giorgio Agamben, benché caratterizzato da una omogeneità che copre tutto l’arco evolutivo delle sue opere, può essere per comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da spartiacque è un testo fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dall’ultimo Foucault, vale a dire dalle ricerche intorno al biopotere, indagando sul rapporto fra diritto e vita e sulle dinamiche dei modelli di sovranità. La prima riflessione agambeniana predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel contesto di un grande confronto con il pensiero di Martin Heidegger – che ha conosciuto personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza nel 1966 e 1968 e con quello di un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò la prima edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche un discreto numero di testi inediti; la collaborazione con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l’editore. All’inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell’esistenza del linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni, dall’estetica nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte chiedendosi se quest’ultima permetta una differente espressione del linguaggio rispetto alla prima, all’etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti emergenti dal contesto dei lager nazisti.
Il cuore del libro è il saggio Su ciò che possiamo non fare. Potenza, insegnava Aristotele, non è solo possibilità di fare, ma anche di non fare: «mentre il fuoco può soltanto bruciare» e gli altri viventi «possono solo questo o quel comportamento iscritto nella loro vocazione biologica» – scrive Agamben – l’uomo «può tanto una cosa che il suo contrario, sia fare che non fare» ed è, dunque, «l’animale che può la propria impotenza». Non è improprio identificare questa possibilità di non fare con una forma di resistenza di cui occorrerebbe, oggi, riappropriarsi. Il potere «che si definisce ironicamente “democratico”», leggiamo, priva gli uomini della loro possibilità di non fare, li persuade del fatto che essi possono qualsiasi cosa proprio mentre li consegna «in misura inaudita a forze e processi» sui quali hanno perduto ogni controllo. Di qui la cecità di fronte all’impotenza umana, come pure il confondersi delle identità e dei ruoli sociali: «l’idea che ciascuno possa fare o essere indistintamente qualsiasi cosa, il sospetto che non solo il medico che mi esamina potrebbe essere domani un videoartista, ma che perfino il carnefice che mi uccide sia già in realtà, come nel Processo di Kafka, un cantante, non sono che il riflesso della consapevolezza che tutti si stanno semplicemente piegando a quella flessibilità che oggi è la prima qualità che il mercato esige da ciascuno». Solo la lucida consapevolezza di quel che possiamo non fare restituisce consistenza al nostro agire, conclude Agamben, così come solo la capacità di intessere una relazione armonica con una zona di non conoscenza, di ignoranza costitutiva, restituisce consistenza al nostro sapere.
Affrontando quest’ultimo passaggio, Agamben usa un’espressione che ricorda un tema caratteristico dell’ultimo Foucault, rimasto intriso di ambivalenze al modo di una figura appena sbozzata. «Arte di vivere», infatti, viene definita da Agamben la capacità di istituire una relazione armonica con quella «zona di non conoscenza» da salvaguardare non come se si trattasse di un’oscurità mistica, di un mistero arcano, né tantomeno di uno di quei fantasmi rimossi nell’inconscio con i quali ci ha familiarizzato la psicoanalisi. «Non si tratta di una dottrina segreta o di una scienza più alta, né di un sapere che non si sa», precisa Agamben, quanto piuttosto di una serie di gesti, forse di relitti della memoria, certamente di qualcosa verso cui non valgono né scienza né dogma, ma solo «grazia» e «testimonianza». (ARCHETYP’ART) Una danza, ricorda Agamben, è il modo in cui Kleist aveva descritto la relazione con la zona d’ombra del non sapere, e proprio la danza è quanto in modo eminente disfa l’economia dei movimenti del corpo togliendo loro ogni funzione immediata per farceli ritrovare trasfigurati nel disegno della coreografia: inoperosi, cioè non più dipendenti dal vincolo di un’operazione, eppure attivi, ciò che li rende un segno di resistenza verso la prassi sociale generalizzata.
La prassi dell’arte
Già nelle pagine del Regno e la Gloria Agamben aveva accostato l’inoperosità alla pratica dell’arte. La poesia, scriveva allora rifacendosi a Spinoza, è l’operazione attraverso cui la lingua disattiva «le sue funzioni comunicative e informative, riposa in se stessa, contempla la sua potenza di dire e si apre, in questo modo, a un nuovo, possibile uso». Quel che la poesia compie rispetto alla potenza di dire, auspicava in quell’occasione, la politica e la filosofia devono farlo per la potenza di agire: «rendendo inoperose le operazioni economiche e biologiche, esse mostrano che cosa può il corpo umano, lo aprono a un nuovo, possibile uso». È significativo il fatto che nei sondaggi di Nudità l’apertura verso un nuovo uso del corpo umano sia tentata più volte, ma torni a insistere su dimensioni estetiche, prendendo il termine di nuovo nell’accezione foucaultiana di una «estetica dell’esistenza». Avviene nel saggio che dà il titolo alla raccolta o in quello sul Corpo glorioso, nel quale l’esame della dottrina teologica sulle condizioni fisiche degli uomini al momento della resurrezione conduce alla scoperta di paradossi – un Paradiso di trentenni cui è data anche una defecazione gloriosa – derivanti, in ultima analisi, da una separazione rimasta al fondo dell’intera cultura occidentale: quella tra una funzione e la sua sospensione, tra un corpo che opera in modo economico, sulla terra, e che esibisce solo la sua perfezione, nella gloria eterna. Una separazione identica è quella che divide, in tutte le religioni monoteiste, la creazione e la redenzione, per riprendere i temi del saggio che apre il libro. Riattivare la memoria di questa origine teologica, conservata ma non avvertita nel processo moderno di secolarizzazione, è per Agamben il metodo che consente di riannodare alla radice quel che è stato forzatamente separato. Ritroviamo il modello di questa argomentazione in più di un passaggio. Corpo economico, terreno, e corpo glorioso, celeste, non sono due corpi distinti, ma lo stesso corpo che l’inoperosità scioglie dal vincolo con la produttività e restituisce a un «nuovo possibile uso comune». Creazione e salvezza «coincidono nell’insalvabile» e la loro coincidenza può darsi solo se non vi è più nulla né da fare né da salvare. È l’esperienza della bellezza però, a rappresentare il polo di attrazione verso cui converge l’affermazione dell’inoperosità come punto di snodo di una prassi diversa, resistenza di fronte allo stimolo incalzante di un’economia della produzione che funzionalizza ai suoi scopi il nuovo dogma della flessibilità. La bellezza della nudità è esibizione della «pura apparenza» al di là di ogni significato e di ogni uso, disincanto dell’assenza di segreto che ci colpisce nella sua immediatezza rendendo vana l’antica e perdurante distinzione teologica fra la grazia della natura edenica e la corruzione della natura terrestre.
I riferimenti dei saggi di Nudità alla dimensione antropologica della festa, alla fenomenologia della moda, ai dispositivi di cancellazione dello sguardo e del volto che educano mannequin e pornostar all’esposizione di un involucro oltre il quale non vi è nulla da cercare, erano in parte già delineati in un altro testo recente di Giorgio Agamben, Signatura rerum (Bollati Boringhieri 2008). Qui, però, si ha più netta l’impressione che, concentrandosi su temi come la bellezza, la danza, l’apparenza, la nudità, l’inoperosità abbia assorbito nel suo modo di articolarsi il retaggio di una vecchia tradizione estetica, quella che considera l’arte priva di scopi e, dunque, di utilità. Agamben prova a smarcarsi esplicitamente da questa tradizione, eppure si avvertono esitazioni che valgono come un sintomo di quella parentela. Non essendo inerte, ma attiva, l’inoperosità di cui egli scrive può ancora creare, produrre opere, ma d’altra parte le uniche davvero capaci di reagire alla scissione, di tenere insieme potenza e impotenza dell’agire umano, sembrano essere proprio quelle vicine al gesto artistico.
Altre estetiche dell’esistenza
Fuori dal campo estetico non ci sono opere immuni dal rischio di alienarsi nell’ordine dell’economia e della produzione funzionale, così che una prassi inoperosa sembra non poter opporre altra resistenza se non quella della defezione o del rifiuto, un po’ come avviene con il Bartleby di Herman Melville di cui proprio Agamben, anni fa, aveva dato un’interpretazione magistrale. Da questa impasse, probabilmente, deriva il richiamo rivolto alla filosofia perché riattivi «una relazione essenziale con la creazione», pena il suo «girare a vuoto» nell’inesauribile esercizio del commento. Di qui, però, anche il dubbio che il principio dell’inoperosità abbia una forza ancora solo embrionale. È nello scritto dedicato alla questione del riconoscimento, Identità senza persona, che l’orizzonte di un’altra prassi possibile si delinea con maggiore nettezza, conservando uno spazio anche per quel margine d’indeterminazione di cui l’inoperosità non può fare a meno.
Di fronte ai dispositivi che fissano il riconoscimento dell’identità in una dotazione biologica, tramite raccolta di dati biometrici e accertamento del Dna, la persona scompare, lo strato della nuda vita celebra il suo trionfo, la «Grande Macchina» globale esalta le sue tecniche di registrazione e di controllo. «E tuttavia», nota Agamben, «se l’uomo è colui che sopravvive indefinitamente all’umano, se vi è sempre ancora umanità al di là dell’inumano, allora un’etica deve essere possibile anche nell’estrema soglia post-storica in cui l’umanità occidentale sembra essersi arenata, insieme ilare ed esterrefatta». Il passaggio così aperto conduce verso l’orizzonte di quell’arte di vivere, di quella «estetica dell’esistenza» cui proprio la connessione con la vita, e non solo con l’arte, conferisce la consistenza di un’etica. Agamben non incoraggia nostalgie per le forme perdute dell’identità e coltiva piuttosto il presentimento di una «nuova figura dell’umano» che «non riusciamo ancora a vedere», ma che «a volte ci fa trasalire improvvisa», quando si palesa nella forma della pura apparenza, della semplice nudità della bellezza.
Una questione di coraggio
È un’immagine, magnifica, a ricordarci allora come la forza del pensiero non risieda tanto nella compiutezza dei suoi filosofemi, nella determinatezza di ogni sua intuizione, ma nello scarto che produce rispetto al proprio tempo, nell’ostinazione con cui evita di lasciarsi «accecare dalle luci del secolo» e tiene fisso lo sguardo sulla sua parte d’ombra. Il postulato dell’inoperosità non è altro, forse, che questa zona d’ombra di cui un pensiero critico deve farsi tenacemente custode. Le galassie che si allontanano da noi a una velocità maggiore della luce, scrive Agamben, proiettano una luminosità che non ci raggiunge, al punto che nel cielo notturno percepiamo ampie zone di buio. Guardare «nel buio dell’epoca», ma percepire in esso «una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi», è il compito di un pensiero critico rivolto all’attualità. Una «questione di coraggio», in fondo, sempre più rara nell’esercizio filosofico.
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