Ottobre 2007


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Intervista ad Antonio Scurati

Rivendica con orgoglio la propria vocazione di intellettuale. E questo – in un’epoca dominata dal disincanto e dalla volgarità televisiva – ne fa una figura atipica nel panorama letterario italiano. Ha iniziato a scrivere praticando i territori della poesia, per approdare successivamente al romanzo. Il primo che ha pubblicato, Il rumore sordo della battaglia, è strettamente intrecciato ai suoi studi sui linguaggi della guerra e della violenza e, dietro l’epopea sanguinosa dell’avvento delle armi da fuoco e dell’eclissi del mondo cavalleresco, tratteggia una visionaria ricognizione della cultura del Novecento. Con il secondo, Il sopravvissuto, ha vinto il Premio Campiello. Anche in questo romanzo il filo della narrazione s’annoda a una riflessione sul nostro tempo. Il giorno dell’esame di maturità, uno studente stermina i suoi professori e ne lascia in vita solo uno. A questi toccherà interrogarsi sulle ragioni della strage e portare il peso di una colpa oscura che appartiene a lui quanto alla società. Scurati ama i territori di confine. Insegna Teorie e tecniche dei linguaggi televisivi all’Università di Bergamo e scrive romanzi, si interessa d’estetica e teoria letteraria, ma non disdegna di sporcarsi le mani  con l’attualità. Soprattutto, reclama un ruolo attivo, disturbante, della letteratura e dello scrittore, in polemica aperta con i troppi che vogliono ridurre la prima a forma d’intrat­te­ni­men­to e il secondo a innocuo affabulatore.

Quali sono le cause di questa tendenza antintelletualistica?

L’attitudine disimpegnata di molti scrittori rompe una tradizione profonda. Nella generazione che ha preceduto la mia lo scrittore in Italia era, salvo rarissime eccezioni, un intellettuale. Diversa, invece, la situazione negli Stati Uniti dove, sin dalle origini, molti scrittori si sono posti in una posizione polemica con gli intellettuali. Quanto sta accadendo nel nostro paese è, in parte, effetto di una cultura globale e omologante. Le forme che, però, la tradizione americana assume da noi sono piuttosto semplificatorie. D’altronde, in Italia da tempo si assiste a una decadenza molto spiccata dell’intel­let­tua­le come voce pubblica. In buona parte, ciò è dovuto all’egemonia di altri linguaggi della comunicazione, penso soprattutto alla televisione, che nel nostro paese  hanno fatto del populismo una bandiera. Questo spiega l’orgoglio di una certa volgarità, intesa proprio come riconciliazione totale con il volgo. Si tratta di un fenomeno tipicamente italiano, perché in altri paesi – anche negli stessi Stati Uniti – gli scrittori si identificano comunque con modelli alti, che da noi invece si ha quasi pudore di evocare.

Coordini un gruppo di ricerca sui linguaggi della guerra e della violenza. Come mai quest’interesse?

Durante il mio dottorato all’Ècole des Hautes Ètudes en Sciences Sociales a Parigi, abitavo dalle parti dell’Hôtel des Invalides e del Musée de l’Armée, le due grandi istituzioni dove la Francia onora i reduci delle proprie guerre e celebra le glorie e i fasti del periodo napoleonico. In realtà, quello era un mondo lontanissimo dal mio vissuto. Si è trattato di un’attrazione per l’altro radicale, per ciò che mi sembrava più lontano dalla mia esperienza. Un interesse nato, insomma, da una distanza abissale, non da una consuetudine. Ho fatto il servizio civile. Non ho mai avuto alcuna dimestichezza pratica e neanche alcuna adesione ideologica al mondo delle culture marziali.

Eppure ci sono alcuni critici che hanno parlato di una tua presunta fascinazione per il vitalismo di certe figure eroiche…

I critici notano legittimamente quello che vogliono. D’altra parte, c’è stato addirittura chi si è spinto al di là della critica del testo attribuendomi addirittura un’indole violenta. C’è chi ha detto che sarei un fascista… Sono solo maldicenze, ma interessanti rispetto al discorso che facevamo prima. Un certo riduzionismo antintellettuale tende, infatti, a pensare che la materia di cui si nutre una narrazione debba necessariamente radicarsi nella vita vissuta dell’autore. In realtà, spesso ha invece una provenienza colta ed è frutto di una mediazione intellettuale. Anzi la distanza dall’oggetto delle proprie storie è una condizione tipica dello scrittore contemporaneo. Il nostro tempo ci porta sempre più a vivere attraverso esperienze mediate, generando, però, l’inganno dell’immediatezza. Tutto ciò che, per esempio, la mia generazione sa della guerra lo ha visto alla televisione. Lo ha visto, però, in diretta. Si tratta di una forma d’esperienza limite – che io chiamo inesperienza – nella quale le immagini ti inducono a pensare “questa è la vita vera”, ma in realtà lo spettacolo al quale stai assistendo ha lo stesso statuto di realtà di una televendita di tappeti, o di una soap opera. Nonostante da qualche parte nel mondo ci siano persone che effettivamente stanno morendo sotto le bombe.

Su questo tema hai scritto un libro – La letteratura dell’inesperienza – che analizza proprio come cambia la sensibilità di chi scrive romanzi nell’epoca della televisione. È davvero tanto diverso oggi?

L’immaginario ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella vita dell’umanità. Oggi, però, si produce uno slittamento significativo, anche se apparentemente minimo. Si tratta dell’egemonia della cultura visuale. La pseudo-realtà in cui sempre più siamo immersi è diversa dalle rappresentazioni prodotte dai linguaggi e dai media tradizionali, come i romanzi, e in generale i libri, per il fatto stesso di rivolgersi prioritariamente al senso della vista. L’occhio prevale sull’immaginazione mentale. Questo accade per la potenza delle tecnologie che consentono la televisione in diretta. In questo modo l’im­magine della morte e della devastazione prodotta dalla guerra si trasforma in spettacolo. È così che l’immaginario finisce per colonizzare “i mondi della vita”, sia quelli della vita vissuta sia quelli che tradizionalmente appartenevano al territorio della finzione. Quest’ultima è cosa ben diversa dall’immaginario. Tra le diverse caratteristiche che la distinguono c’è infatti quella di dichiararsi per ciò che appunto è, vale a dire una finzione. Un libro ti parla del mondo, ma non pretende di essere esso stesso il mondo. Ti dice: “io sono finto e per questo, sono magari anche in grado di dirti la verità su certe cose”. Una cronaca in diretta del bombardamento di Bagdad, invece, dà a chi la vede l’illusione della realtà. In qualche modo, è come se gli dicesse: “io sono la realtà stessa”.

L’annullamento del confine tra reale e irreale ci condanna inevitabilmente alla perdita di senso e al minimalismo, o c’è una possibilità di resistere?

Non ci condanna a niente. Semmai ci obbliga alla resistenza. La resistenza diventa una parola quanto mai attuale. Quasi un paradigma di vita quotidiana. Per resistenza intendo il dovere di fare attrito rispetto allo scivolamento in una dimensione nella quale la distinzione tra reale e fittizio, non solo non è più possibile, ma nemmeno più pertinente. Ci sono diversi modi per resistere e continuo a credere che l’arte e la letteratura siano una di queste.

C’è però anche una letteratura che si mette sulla scia e asseconda l’esistente…

È vero, ma quella secondo me non è letteratura. Anzi credo che proprio la capacità di fare frizione rispetto alla bolla di immaginario che ci inghiotte sia uno dei crismi più chiari per distinguere ciò che è letteratura da ciò che non lo è. La letteratura è insomma qualcosa che, per definizione, contesta lo status quo. Non si chiama fuori. Non cambia discorso. Non dimentica la realtà, ma la osserva da un altro punto di vista e ne smaschera le contraddizioni.

Qual è stata la tua formazione?

Sono laureato in filosofia alla Statale di Milano, con una tesi di laurea sul critico americano Harold Bloom. Dopo ho studiato all’École des Hautes Études, con Jacques Derrida. Nel frattempo ho vinto un posto di dottorato a Bergamo e sono tornato in Italia. All’inizio non pensavo di fare la carriera accademica. Poi ho cominciato insegnare come professore a contratto e alla fine sono approdato alla cattedra di Teorie e tecniche del linguaggio televisivo.

C’è stato qualcuno che ha avuto un ruolo particolare nella tua decisione di diventare uno scrittore? Servono ancora i maestri?

No. Non ho avuto alcun maestro di questo tipo. Tutti i maestri che ho coltivato erano morti, o lontani.

Quando hai cominciato a pubblicare le prime cose?

Ho esordito direttamente con il mio primo romanzo. Durante il dottorato di ricerca, per mantenermi, lavoravo come commesso da Blockbuster. Un sabato sera c’era una gran ressa di clienti e la coda arrivava sino fuori la porta del negozio. Ero alla cassa, a distribuire film di Sylvester Stallone e pacchetti di popcorn, quando ho letto sul tesserino di un cliente un nome che conoscevo. Era Antonio Franchini. Avevo letto i suoi libri e li amavo. Così gli chiesi se era proprio lo scrittore. Si guardò attorno, cercando la candid camera. In effetti, vive con un certo fastidio il fatto d’essere soprattutto noto come dirigente della Mondadori piuttosto che come scrittore. Per di più si trovava davanti questo ragazzo, vestito con la divisa di Blockbuster, che gli diceva d’essere un suo lettore e la cosa non poteva che sembrargli strana. Gli chiesi se aveva voglia di fermarsi un momento accanto alla cassa, perché non potevo staccare, e ci mettemmo a parlare dei suoi libri. Da quest’episodio nacque un’amicizia e per circa un anno abbiamo continuato a sentirci e a parlare di libri. Ben presto scoprii che era l’editor della narrativa italiana di Mondadori, cosa che prima ignoravo. All’epoca io avevo già scritto almeno due voluminosi romanzi inediti (che sono ancora tali) e alcune raccolte di poesie, ma non mi sognavo nemmeno di dirgli che scrivevo e di dargli un mio manoscritto, perché lo vedevo assediato dalle proposte. Poi ci si mise di mezzo ancora il caso. Un mio amico dell’epoca, poi divenuto anche lui scrittore, Giuseppe Genna, che lavorava in Mondadori e faceva l’università con me, parlando con Franchini gli rivelò che scrivevo e allora fu Antonio a chiedermi di leggere qualcosa di mio.

Cosa pensi delle possibilità che ha aperto Internet per gli aspiranti scrittori?

In realtà è un mondo che conosco poco, ma che rispetto. Guardandolo un po’ dal­l’es­terno, mi sembra che per quanto riguarda la letteratura sia ancora una promessa non mantenuta. Per lo più, le comunità letterarie in rete mi sembrano ridotte a una specie di luogo di sfogo, dove trova espressione quella cultura del risentimento che è molto diffusa nel nostro paese ed è fatta di lamentele, di manifestazioni di ostilità, o di facili entusiasmi, di settarismi e via dicendo. Comunque, so che gli editori hanno effettivamente cominciato a monitorare la rete per scoprire nuovi talenti. Si tratta però ancora di un fenomeno limitato.

E delle scuole di scrittura creativa?

Le guardo con curiosità, ma anche con scetticismo. Non credo che la tecnica basti a fare letteratura. Anche questo è uno degli ideologemi più diffusi del nostro tempo: che la scrittura sarebbe innanzitutto un fatto tecnico. Credo invece che ci sia una profonda inclinazione antropologica della specie umana al racconto, che fa si che possano esserci anche formidabili narratori spontanei, naif. D’altro canto credo che la letteratura sia sempre espressione di una personalità peculiare, che magari non si manifesta in nessun altro modo se non sulla pagina. Gli scrittori possono essere anche uomini assolutamente grigi, ma che hanno una loro vita mentale formidabile che a un certo punto riversano sulla pagina. Allo stesso modo, però, credo nell’editing, come forma di ulteriore irrobustimento e di liberazione del potenziale del testo. In ogni caso, quello che ci appassiona, o quantomeno che appassiona me, in un libro è la verità di un uomo, quasi sempre una cruda verità. Insomma, non è che la tecnica non serva, ma non è tutto, e quando è tutto, allora hai perso la partita. Dubito che le scuole possano insegnare il segreto del narrare. Però il mio è un dubbio attivo, perché mi interrogo e ogni tanto accetto gli inviti che mi rivolgono (sono stato, per esempio, alla Holden, di Baricco). Sto addirittura prendendo in considerazione la possibilità di istituire la prima cattedra in Italia di creative writing all’americana.

Hai un agente?Pensi che le agenzie letterarie possano svolgere anche un ruolo di promozione dei nuovi talenti?

Il mio agente è Marco Vigevani. So, per conoscenza diretta, che la maggioranza delle agenzie letterarie offre servizi di lettura per pagarsi le bollette. Per carità, c’è anche qualcuno che lo fa in maniera seria, ma sono davvero pochissimi. Ho molti dubbi che gli agenti possano svolgere un ruolo di talent scout. Credo, invece, che il diffondersi degli agenti letterari in Italia sia assolutamente positivo per riequilibrare il rapporto tra autori ed editori che, negli ultimi venti-trent’anni, s’é fatto molto squilibrato. Una volta nelle case editrici lavoravano grandi scrittori e letterati, che venivano interpellati in quanto tali e non gli si chiedeva di negare la loro identità di scrittori e intellettuali come accade oggi. Scomparse queste figure abbiamo attraversato una stagione – che, in parte, dura ancora oggi – in cui il potere dell’editore sull’autore era totale. S’è diffusa l’idea che l’autore possa essere considerato un pezzo intercambiabile di una macchina editoriale manipolabile a piacimento. Il ruolo crescente assunto dagli agenti è servito ad arginare questa tendenza. Quanto alla scoperta di nuovi talenti, penso che servano molto di più i piccoli editori specializzati, o alcune collane, o iniziative speciali, come i volumi collettanei. In Italia, la ricerca di nuove voci segna il passo. Ad ammetterlo sono gli stessi editori,  che hanno perso un po’ il contatto con la realtà dei giovani scrittori. Il paradosso è che oggi gli esordienti sono diventati una merce ambita – visto che da alcuni anni hanno cominciato anche a vendere – però non si sa dove andarli a pescare.

Cosa consigli a chi scrive?

Di non fare calcoli. Quando si scrive da giovani si ha il vantaggio d’essere immersi in una dimensione di assolutezza. Si tratta di una libertà che è generativa e dà i suoi frutti, quando deve darli. Per carità non è condizione sufficiente, ma necessaria sì. Se si parte cercando di calibrare il colpo, se si cerca di fare quello che è opportuno e si scende a compromessi in partenza, secondo me si è sbagliato mestiere. È una strada che non paga. Tanto vale esercitarsi in altri ambiti in cui ci sono maggiori possibilità di guadagno, come la borsa e la finanza.

a cura di Giovanni Battista Tomassini

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INVITO

l’Altroverso del mondo al festival della poesia del sud

sabato 20 ottobre 2007 – ore 17

Villa De Marco – Montella  (Avellino)

Interventi:

Valentino Campo
Pier Paolo Giannubilo
Luigi Fabio Mastropietro

Letture:

Mari Correa
Cristina Piccinno
Luigi Fabio Mastropietro

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Comunicato stampa

Iran, il trionfo dello Spirituale nell’Arte  II edizione

Mostra di calligrafia e miniatura (Vita di Melvana) di artisti provenienti da Shiraz (Iran)
Arteinterrazza        Accademia di Belle Arti di Roma – Via Ripetta 222, 00186 Roma
22 / 28 ottobre 2007

– L’inaugurazione sarà lunedì 22 ottobre, ore 18,00.
Alle ore 19,30 il critico d’arte Vitaldo Conte presenta il catalogo e video della mostra DonnaArte (Arte e Artigianato femminile dell’Iran, dell’Italia del Sud e del Salento).

– L’esposizione è stata realizzata grazie allo sforzo congiunto dell’Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran in Italia e dell’Accademia di Belle Arti di Roma, insieme al Comune di Shiraz (Iran).
La mostra raccoglie 65 opere di 8 artisti e 10 artiste di Shiraz che lavorano in diversi campi, dalla miniatura alla calligrafia, dall’illuminazione (tazhib) al disegno naturalistico e alla calligrafia, prodotte in un periodo di tre anni in diversi laboratori sotto la supervisone di Mohammad Hasan Golban Haqiqi  presso l’Istituto artistico-culturale Simab di Shiraz.
In considerazione del fatto che il 2007 è stato dichiarato dall’UNESCO Anno di Melvana, una sezione speciale della mostra è dedicata alla rappresentazione della vita, del credo e dei racconti di Melvana. I suoi versi calligrafati sono esposti sia in persiano che in italiano.
Le altre sezioni della mostra comprendono:  la scuola miniaturistica di Shiraz; la miniatura e la pittura di altre scuole iraniane; alcune pagine del Sacro Corano manoscritto e rilegato a Shiraz 150 anni fa; calligrafia e illuminazione; il disegno di rose e uccelli; l’arte delle nuvole e del vento.

Shiraz è una città dall’illustre passato nel campo delle arti, cantata centinaia di volte: i suoi giardini,  fiori e uccelli hanno una rinomanza globale. Questa città ha visto la nascita di diversi stili nella Miniatura in tutte le epoche, testimoniata non solo nei libri, ma anche nelle pareti delle case e degli edifici pubblici e religiosi, nelle ceramiche delle cupole e nelle meravigliose calligrafie, che recano il segno e il colore della storia dell’amore e della fede.
Moulana Jalaloddin Rumi, detto Melvana, originario di Balkh, nel Khorasan, nacque nell’anno1207 ed emigrò con la sua famiglia a Konya nel  1219. Per l’influenza di Borhan al-din Termezi si avvicinò al sufismo, e grazie ai suoi insegnamenti spirituali percorse tutte le stazioni della via inziatica del sufismo e della gnosi nell’anno 1240, diventando Shaykh (Maestro spirituale) e attirando, grazie alla sua straordinaria personalità, un gran numero di  discepoli nella regione anatolica.

Istituto Culturale dell’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran-Roma
00135 Roma  ,Via M.Pezzè Pascolato,9
Tel.06 30 52207 , 8   Fax 06 3017341
rome@icro.ir
www.rome.icro.ir

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Fortunato Depero – Locandina pubblicitaria Uova Sorpresa Unica, 1927. Stampa tipografica, cm 34 x 24,1, Rovereto, MartPochi autori di inizio Novecento indovinarono la direzione commerciale che l’arte avrebbe intrapreso nel giro di qualche decennio con l’intuito profetico del futurista Fortunato Depero.

E non è un caso: lo scandalo sistematico inteso come forma di promozione, l’esaltazione dell’uomo-macchina e l’approccio Pop ante litteram manifestato nelle opere prodotte e riprodotte attraverso la tecnica industriale erano già riflessioni in qualche modo appartenute al movimento fondato da Filippo Tommaso Martinetti.

 

Perfettamente coerente con quest’approccio è la mostra “DeperoPubblicitario- Dall’auto-rèclame all’architettura pubblicitaria” che Rovereto, città di riferimento dell’autore della celeberrima bottiglietta Campari, ospita negli spazi del Mart dal prossimo 13 ottobre al 24 febbraio 2008. Un progetto, quello curato dal Gabriella Belli e Beatrice Avanzi, che testimonia l’immensa ricchezza dei materiali di proprietà del museo: manifesti, locandine, disegni e collage che la mostra presenta con un grado di completezza del tutto inedito. L’esposizione valorizza infatti in particolare il ricchissimo patrimonio di opere (appartenenti al lascito originario di Depero degli anni Sessanta) che il Mart fin dal 1990 ha avuto in comodato dal Comune di Rovereto.

 

Depero – uno tra i protagonisti del fermento culturale della Rovereto anni Dieci insieme con i vari Fausto Melotti, Carlo Belli e Luigi Pollini – si dedicò al mondo della pubblicità con una straordinaria vitalità, sorretta dalla fede futurista. Si trattava di un settore che, proprio all’inizio del secolo, aveva compiuto i primi passi, esplorando una nuova frontiera della creatività artistica e al cui servizio si adoperarono ben presto molti talenti. La sua attenzione nei confronti delle arti applicate si trova già nei pronunciamenti del manifesto “Ricostruzione futurista dell’universo”, firmato assieme a Giacomo Balla nel 1915. In questo testo, infatti, appaiono i primi accenni di un suo interesse per la pubblicità, evidenti in un passaggio dedicato alla “rèclame fono-moto-plastica”. Fortunato Depero reclamizza come primo prodotto Fortunato Depero, e a questo importante aspetto del suo lavoro è dedicata la prima sezione della mostra. Sono le “auto-rèclame”: carte da lettera, pubblicazioni e curiosi cartelli da apporre all’ingresso delle sale dove si tenevano le esposizioni, come quelli eseguiti per la “Casa d’Arte Futurista Fortunato Depero”, l’officina per produrre arazzi e giocattoli, fondata a Rovereto nel 1919.

 

«L’artista – scriveva Depero – ha bisogno di essere riconosciuto, valutato e glorificato in vita, e perciò ha diritto di usare tutti i mezzi più efficaci ed impensati per la reclame al proprio genio e alle proprie opere». La seconda sezione è dedicata invece a “L’arte del cartello e i grandi marchi”. Nei primissimi manifesti di Depero (da lui appunto chiamati “cartelli”), si ritrova quell’universo meccanico futurista elaborato nel 1918 per “I Balli Plastici”, spettacolo di marionette ideato con lo scrittore svizzero Gilbert Clavel. E’ il caso, ad esempio, del “Manifesto pubblicitario Mandorlato Vido”, del 1924. Negli anni successivi, “i buffi manichini meccanici” vanno progressivamente scomparendo, lasciando spazio a ricerche stilistiche sempre più raffinate. L’impegno pubblicitario di Depero si concretizza grazie a continuative collaborazioni con importanti imprese come la ditta di mattoni Verzocchi, la Magnesia l’Acqua San Pellegrino, il liquore Strega, la casa farmaceutica Schering, la fabbrica di dolciumi Unica, ma soprattutto con la famosa azienda Davide Campari, cui deve gran parte della sua celebrità di pubblicitario. L’ultima sezione della personale è intitolata “Dall’architettura pubblicitaria all’editoria”. Si parte con una delle forme più originali di pubblicità inventate da Depero: i cosiddetti “Padiglioni tipografici”.

 

Lui che non era un architetto, nel 1927 progetta e costruisce il padiglione editoriale Bestetti-Treves-Tumminelli, un’architettura in cemento in cui gli spazi formano delle parole. Importanti sono infine le collaborazioni con il mondo dell’editoria. Uno dei capitoli più ricchi e creativi della sua attività editoriale è rappresentato dal soggiorno di Fortunato Depero a New York. Tra il 1929 e il 1930, Depero prepara numerosi progetti di copertine per la Condé Nast Publications, la casa editrice di Vanity Fair, House & Garden, e Vogue. Lavori in cui è evidente la profonda impressione prodotta su Fortunato Depero dal paesaggio metropolitano di New York, opere delle quali la mostra offre un eccellente saggio.

 

“DeperoPubblicitario”

Rovereto (TN), Mart, dal 13 ottobre 2007 al 24 febbraio 2008

A cura di Gabriella Belli e Beatrice Avanzi

Orari: mar. – dom. 10.00 – 18.00; ven. 10.00 – 21.00; lunedì chiuso

Ingresso: intero euro 8; ridotto euro 5; gratuito fino a 14 anni

Per informazioni: 800 397 760

www.mart.trento.it

 

 

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Andreas Gursky. Paris,criticart.jpggursky99cent.jpggurskyShanghai.jpg

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Scomparso il tedesco Bernd Becher fotografo della Nuova Oggettività

 

Il fotografo tedesco Bernd Becher è morto a 76 anni, in un ospedale di Rostock, in seguito alle complicazioni di un intervento chirurgico. Becher era considerato il maestro della fotografia industriale e capofila, con la moglie Hilla, della corrente della «Nuova Oggettività». Era professore di scultura all’Accademia di Belle arti di Düsseldorf e, sempre insieme alla moglie, aveva dato vita alla «Scuola Becher», caratterizzata da una fotografia documentaria realista relativa soprattutto a edifici industriali. Tra i suoi discepoli Thomas Struth, Thomas Ruff e Andreas Gursky. Esposte nei principali musei d’arte contemporanea del mondo, le sue immagini hanno fruttato a Becher prestigiosi premi: il Leone d’Oro della Biennale di Venezia nel 1990, il Premio Erasmus nel 2002 e il premio Hasselblad nel 2004.

 

Andreas Gursky

 

Dimensioni gigantesche, ricchezza di dettagli, colori saturi, piani schiacciati, luce diffusa ed elaborazione digitale sono alcuni degli elementi che compongono i lavori di Andreas Gursky, considerati tra i più originali degli ultimi decenni.

 

Un intero universo è racchiuso in una sua inquadratura. Il fotografo tedesco dal 1990 ha focalizzato la sua attenzione sul mondo contemporaneo, consumistico e tecnologico, costituito da enormi edifici industriali, aeroporti, banche, alberghi, magazzini, serate rave ed eventi sportivi. La presenza dell’individuo all’interno di tali strutture è silenziosa e il suo anonimato è ulteriormente accentuato dal contesto impersonale che lo circonda. L’essere umano, dai contorni precisi, è perfettamente leggibile ma non identificabile. Così, finisce per perdere la sua forza nell’immensa macchina commerciale, industriale e tecnologica, mentre la sua esistenza, inserita in una nuova gerarchia ambientale, appare fortemente banalizzata.

 

Nato a Lipsia nel 1955 e cresciuto a Düsseldorf, Gursky è stato introdotto alla fotografia dai genitori, proprietari di uno studio. Allievo all’Accademia d’arte di Essen, successivamente si iscrive alla scuola d’arte di Bernd e Hilla Becher a Düsseldorf.

Questi due fotografi, da quasi 40 anni, si concentrano sull’architettura industriale in Europa occidentale e Nord America e il loro lavoro è un vero e proprio inventario di edifici industriali di varia natura: abitazioni, serbatoi di acqua, raffinerie, gasometri, cisterne, silos e fornaci. Artisti come Thomas Ruff e Thomas Struth si sono formati nella scuola dei Becher, i cui insegnamenti sono stati accolti dai movimenti dell’arte concettuale e minimalista.

 

Andreas Gursky, pur assimilando le visioni dei suoi maestri, acquista però una sua autonomia interpretativa, utilizzata per analizzare le strutture che più condizionano l’esistenza quotidiana dell’uomo. In seguito lascia Düsseldorf per cogliere gli spazi infiniti delle metropoli tra cui il Grand Hyatt Park di Hong Kong, la galleria Matthew Marks di New York, la Borsa di Tokyo, la vetrina di Prada a Parigi, e il Bundestag a Bonn, ricorrendo, senza intaccare le caratteristiche della stampa fotografica, alle manipolazioni digitali.

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Mark Rothko, pittore “classico” che i critici vollero “astratto”
di Francesco Prisco

«Ho sempre avvertito una forte esigenza di concretezza. Per questo non capisco un’estetica basata sulla percezione delle relazioni. Per me l’immagine deve essere sempre concreta, indivisibile e comprensibile in termini di vita vera». Può sorprendere il grande pubblico che a parlar così più di cinquant’anni fa fosse Mark Rothko, quello che la critica ha consacrato come il genio dell’espressionismo astratto. Definizione che, neanche a dirlo, stava strettissima al pittore lettone di nascita e americano d’adozione. Alla sua figura sempre al di sopra delle righe, nella realizzazione dei leggendari rettangoli policromi come nelle tragiche circostanze del suicidio nello studio di New York, il Palazzo delle Esposizioni di Roma dedica un’ampia retrospettiva, in programma dal 6 ottobre al 6 dicembre.
Rare fino a questo momento sono state le occasioni italiane per assistere ad una mostra monografica dedicata Rothko. Si ricordano prevalentemente l’unica retrospettiva dell’artista, organizzata dal Museum of Moden Art di New York, portata nel 1962 a Roma e presentata alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, e quella commemorativa a Ca’ Pesaro, in occasione della Biennale di Venezia del 1970, subito dopo la sua tragica morte. Il futuro per gli amanti della sua arte, a quanto pare, si annuncia non meno problematico. Dopo la vendita del dipinto “White center (Yellow, Pink and Lavender on Rose)” per 72,8 milioni di dollari, cifra record per un’opera d’arte del dopoguerra, battuta quest’anno all’asta da Sotheby’s e acquistata da un privato di cui non si conosce il nome, è ipotizzabile che diventerà sempre più difficile avere le opere di Rothko per esposizioni temporanee. La personale romana, curata da Oliver Wick e prodotta dall’Azienda speciale Palaexpo in collaborazione con Arthemisia, si presenta quindi come una occasione unica nel Bel Paese per vedere riunite così tante opere di uno dei più grandi artisti del secolo scorso. La mostra mira a fornire un quadro generale della produzione di Rothko, senza tralasciare la costante preoccupazione dell’artista di presentare il suo lavoro attraverso gruppi di opere attentamente selezionate, concepiti proprio per accrescere l’impatto visivo sui visitatori. La scelta dei dipinti segue dunque precisi criteri nel percorso espositivo. Le tele sono una settantina e si affiancano ad un significativo gruppo di opere su carta che illustrano aspetti specifici di ogni periodo della sua carriera. Per i primi lavori di Rothko, la mostra si focalizza sui dipinti, relativamente piccoli, eseguiti con una preparazione in gesso, il cui uso tende a dare al pigmento una qualità simile all’affresco, con delicate tonalità ed una consistenza sottile dove è evidente l’influenza dell’arte italiana del Quattrocento, in particolare del Beato Angelico. La tradizione del Rinascimento italiano, soprattutto degli affreschi, ha avuto infatti una straordinaria influenza sulla serie di commissioni murali del cosiddetto periodo classico di Rothko. Queste suggestioni sono esplorate anche nel caso dei lavori surrealisti, nei quali la tecnica dello strato sottile di pittura e delle velature è sempre più perfezionata.
Accanto a una selezione dei cosiddetti “Multiforms”, lavori caratterizzati da macchie di colore e da un particolare effetto plastico-spaziale che completa la prima fase delle opere di Rothko, sono visibili alcuni dipinti successivi, con sempre più ampi campi cromatici rettangolari. Il “classico” Rothko, con i lavori più maturi, realizzati negli anni Cinquanta su tele di grande formato, costituisce sicuramente la parte più affascinante e più nota dell’attività dell’artista, per la straordinaria qualità dei colori, per l’originalità e l’intenso effetto delle sue composizioni. Tra queste il nucleo di quadri della sala dedicata all’artista alla Biennale di Venezia del ‘58, che segna il primo apprezzamento della sua arte in Europa, oltre ad alcune opere appartenute originariamente a collezioni italiane. Inoltre, le tele “Blackform”, con le singole forme scure squadrate, dipinte a partire dal 1960, danno l’idea del forte desiderio di Rothko di creare uno spazio spirituale. La mostra si conclude con gli ultimi dipinti dell’artista, i cosiddetti “Black on Gray”: un gruppo di opere che segna il culmine di un’arte sempre più austera e orientata verso nuove prospettive espressive in rapporto diretto con lo spettatore. Un’arte i cui estremi sfociano pericolosamente nel male oscuro della depressione.

Mark Rothko
Roma, Palazzo delle Esposizioni
6 ottobre 2007 – 6 gennaio 2008
A cura di: Oliver Wick
Orari: domenica, martedì, mercoledì e giovedì: dalle 10.00 alle 20.00; venerdì e sabato: dalle 10.00 alle 22.30; lunedì chiuso
Ingresso: intero € 12,50; ridotto € 10,00. Permette di visitare tutte le mostre in corso
al Palazzo delle Esposizioni.
Catalogo: Skira
Per informazioni: 06 39967500
ww.rothko.it
www.palazzoesposizioni.it

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