ENNIO DV 001.jpg

ENNIO DI VINCENZO, Asteroide e scarabeo, acquaforte, cm. 70×50

ENNIO DV 0021.jpg

ENNIO DI VINCENZO, Arcobaleno e scarabeo, acquaforte, cm. 70×50

(devo ringraziare Antonio Gasbarrini per avermi inviato l’opera di questo grande artista e uomo a cui tutti dobbiamo onore e rispetto per la ricerca e il senso qualitativo del mondo a.p.)

Il buon gusto della forma (moderna)

I poeti e gli artisti determinano d’accordo il carattere della loro epoca

e docilmente l’avvenire si conforma alla loro idea.

Guillaume Apollinaire

La mefitica miscela del Trash combinato con il Kitsch – vieppiù tracimante nell’ambito della pseudo-estetica contemporanea del Brutto tout- court – rende quanto mai urgente riappropriarsi di una creatività che senza nulla concedere a sterili Arcadie o a manierati “post”, sia nel contempo in grado di esprimere al meglio tutta la “complessa molteplicità” di un’Arte e di una Poesia  ancorabili, nonostante tutto, agli effimeri, anche se spesso contradditori, anticanoni vincenti della Modernità (“ismi” in particolare, nelle infinite varianti avanguardiste e non).
Modernità sintattica, innanzitutto, sia nell’ambito visuale che letterario – com’è simbioticamente verificabile in questa originale cartella in cui le due grafiche Asteroide e Scarabeo e Arcobaleno e Scarabeo di Ennio Di Vincenzo sono perfettamente specchiabili nei “contro / versi” di SCRABBLE ovvero gli scarabocchi dello scarabeo di Edoardo Sanguineti  liberamente “tratti” (il termine “ispirati” mal si adatta alla sua poetica) dalle stesse –  e, perciò, modernità della forma. Ma, Il buon gusto della forma non è l’equivalente de La buona maniera della forma, connotando la parola «maniera» in tutte le sue accezioni stilistiche storicamente susseguitesi (dal Manierismo del Cinquecento come «crisi del Rinascimento ed origine dell’arte moderna», Hauser, alla corrente artistica citazionista postmoderna della Nuova Maniera degli anni Ottanta del secolo scorso).
Uno dei prototipi fondamentali de Il buon gusto della forma (moderna) nel settore letterario, può essere rintracciato nei 99 Exercices de Style di Raymond Queneau (Éditions Gallimard, 1947, tradotto ed adattato in italiano da Umberto Eco nel 1983, in cui un banale ed insignificante episodio di vita quotidiana viene reiterato 99 volte in 99 stili differenti, dalla maniera lipogrammatica alla traduzione onomatopeica, dalla lettura retrograda a quella in versi, e via dicendo). «Perché novantanove? [si chiedeva in una coeva recensione su la Repubblica Alfredo Giuliani]. Perché è un bel numero, piace all’autore della burla, forse è un numero magico» .
Il caso vuole che una serie di numeri a cominciare da 99 – numero cabalistico par excellence della città dell’Aquila dove vive e lavora Ennio Di Vincenzo, simbolo alchemico evocante le emergenze architettoniche principali della sua struttura urbana medioevale nata dalla federazione dei 99 (?) castelli, con successivo corollario più mitico che realistico delle 99 chiese, 99 piazze e 99 fontane, emblematicamente rappresentate dalla celebre Fontana delle 99 cannelle),  e, continuando con i titoli matematici dati da Sanguineti ai suoi tre “ludici” interventi a rima “pressoché baciata” 1×8 = 8, 1×9 = 9, 1×10 = 10 – contraddistinguano questa cartella nata sotto l’armonico segno di Pitagora (2 grafiche + 3 “a-poesie”).
Numeri a parte, cerchiamo adesso di individuare quale sia la regola (vincolo, costrizione, restrizione), spesso nascosta dall’inventore, com’è avvenuto nel romanzo La Disparition di Perec, in cui la sparizione si riferiva alla lettera ‘e’, mai usata nel testo (regola coincidente con la parola contrainte per dirla con gli Oulipiani francesi e gli omologhi Oplepiani italiani) , sottostante le acqueforti di Ennio Di Vincenzo e le poesie (?) di Edoardo Sanguineti.
Partendo dal motto-guida, la parole d’ordine identificante un autore oulipiano: «è un topo che si costruisce da solo il labirinto da cui si propone di uscire», possiamo subito sostenere che è il segno reversibile dell’Ut pictura poësis ad accomunare i chirurgici labirinti frattalici di Ennio Di Vincenzo e gli ironici scarabocchi dello scarabeo di Edoardo Sanguineti, per il quale «la poesia è una mnemotecnica, una tecnica del ricordo, un’arte della memoria».
A suo tempo è stato Plutarco, come ricorda Orazio, ad attribuire la famosa sentenza dell’Ut pictura poësis al presocratico  Simonide di Ceo (556-368 a.C. circa), latinizzato in Simonide Melico (“lingua di miele”): «Simonide – dice Plutarco – definiva la pittura una poesia silenziosa e la poesia una pittura parlante; giacché le azioni che i pittori dipingono nell’atto del loro compiersi, le parole le descrivono dopo che esse sono compiute» .
Soffermiamoci su queste “azioni”. Baricentro visuale decentrato, in basso a sinistra, delle due acqueforti dell’artista abruzzese – dalla prospettiva aerea del “sopra in giù’” – è per l’appunto l’insetto sacro agli egizi, con il dio sole RĀ’ effigiato anche con la sua immagine, per una semplice concordanza visuale astronomica: il moto rotatorio da E ad O, della pallottolina escrementale fatta avanzare dalle zampe anteriori, con cui si nutre l’insetto mitizzato capace di autorigenerarsi, è identico a quello (apparente, possiamo affermare dopo la rivoluzione copernicana) del sole.
E, se in Asteroide e Scarabeo è un’abbagliante, tentacolare massa bianca ad invadere quasi, un sottostante reticolo toponomastico stilizzato, in Arcobaleno e Scarabeo è la sua trasparente tridimensionalizzazione ottenuta dai millimetrici segni di bulino incisi sulla lastra, ad imprimere un realistico dinamismo all’animale.
Di converso, sul versante contrappuntistico della parola, in 1×8 = 8 Sanguineti sceglie subito un’«ARA palindroma», mentre i suoi successivi SCRABBLE, apparentemente senza senso, di fatto sembrano registrare (con non celata amarezza), il pericolo di un’«oulipoide metastasi» [«beato è il metagramma e il metaplasmo: / è BAR, allora, cancrizzante: è BARA: / oulipoide metastasi mi è amara:»]. È un po’ come constatare il pericolo di una degenerazione entropica di una vitalistica eternità, negata sia allo scarabeo che alla potenza salvifica della parola creativa “avanguardizzata”.
Dopo l’avvento del collage picassiano in pittura e del montaggio in cinematografia (per tutti, Le retour à la raison di Man Ray) tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, il continuo “ritagliare per riassemblare”, caratterizza subito ed in modo determinante l’incipiente idioma della modernità.
Anche Ennio Di Vincenzo e Edoardo Sanguineti ricorrono a questi procedimenti manipolatori.
Il primo fondendo innanzitutto alcuni passaggi alchemici tradizionali e tecnologici contemporanei che daranno poi luogo alla fissazione definitiva dei suoi iperanalitici segni sulla carta: alla tradizione secolare del bulino inciso ad hoc sulla lastra (tutta la superficie rettangolare della parte inferiore di Arcobaleno e scarabeo), l’artista abbina nell’area della parte superiore altre tecniche variamente combinate con il ricorso alla eliografia prima, al ritaglio poi ed al successivo assemblaggio di una precedente sua opera (Nuvolabirinto A-Z, acquaforte del 1984), ora riproposta e risemantizzata in Arcobaleno. I due distinti fotogrammi cartesiani sono stati, infine, unitariamente riassemblati con la fotoincisione finale che ha consentito la successiva tiratura seriale con inchiostri.
Il secondo, dopo il “contro / verso” con cui apre e contemporaneamente chiude in 1X10 = 10 l’“a-poesia” [«apro con l’ARCO e chiudo in un BALENO,»] con una serie di permutazioni letterali dall’andamento surreale ed in un virtuosistico crescendo oplepliano, rovescia «un ORCO e un’ORCA che è OCRA: e CENO:», contamina «una BARCA in un CANALE,», […], ascolta «un CORO a NOLO, e CALO LANE:», loda «un BACO e un CORANO ottavo o NONO», evita «un NARCO –, un NECRO –, un BLENO –, un CRONO –:», sigillando poi il tutto con i due “non-versi” finali: «nutro, Ennio, una BALENA in NERO CONO: / oh, che ACRE CLONE! Io mi COLO! Io mi CLONO!».
Analoghe considerazioni possono farsi per l’altra grafica Asteroide e Scarabeo in cui la sottesa poetica di fondo dell’eco-artista Ennio Di Vincenzo, da sempre fortemente caratterizzata in termini non solo estetici, ma etici (“arcobaleno”, “asteroide” e “scarabeo” altro non sono che tre cartine di tornasole di un’unica pessimistica metafora, quella di un’incombente catastrofe umana ed ambientale d’origine subatomica,), è in un certo qual modo addolcita, in 1×9 = 9, dagli impredicibili “salti quantistici verbali” di Edoardo Saguineti: «accetto ASTRO + NAVE: è detta, è fatta: / […] / accenno un AVE molto salmodiato, / voglio un VATE canoro e spettinato: / è NATA già una ROSA, un VASO è NATO:».
I frammenti, le scaglie, gli anfratti dei labirintici segni-parola proposti nella cartella – dove gli abbacinanti bianchi di Asteroide e Scarabeo ed i fitti reticolati di percorsi senza apparente uscita di Arcobaleno e Scarabeo stanno giocando forse l’ultima partita mortale con i famelici buchi neri di tanta superficiale arte contemporanea, pronti a inghiottire persino gli ultimi raggi di luce delle magistrali lezioni avanguardiste (storiche e neo), come quella certificata qui da Edoardo Sanguineti – costituiscono anche un preveggente memento per Il buon gusto della forma (moderna): da salvaguardare a tutti i costi, ma con la stessa leggerezza praticata dai due coautori alla stregua di un Italo Calvino: «[…] ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio» .

L’Aquila, maggio 2006
Antonio Gasbarrini