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«Un quadrato rettangolo», 2001

«Ognuno ha i suoi feticci», ride, Tomás Maldonado — alto, charmant e con un chiaro accento argentino (non pronuncia mai la s) — alludendo alle migliaia di libri che ricoprono come una tappezzeria tutte le pareti di tutte le stanze della sua luminosa casa in pieno centro, a Milano. Eppure ne ha regalati almeno circa millesettecento alla Biblioteca della Triennale.
Cominciamo proprio dalla donazione: di questi tempi sono rare. Perché lei ha invece preso questa decisione?
«In effetti mi è costato grande sforzo disfarmi dei libri perché lì hanno preso forma le mie mille curiosità. Un libro è un testo infinito che a ogni età si può rileggere e interpretare con occhi diversi. Ma siccome la mia grande passione è sempre stata l’educazione dei giovani, ho voluto trovare un luogo dove questi testi potessero arrivare loro».
Che cosa l’ha indotta, nel ’69, a stabilirsi definitivamente in Italia?
«Nel ’54 avevo lasciato Buenos Aires per andare a insegnare a Ulm, in Germania: tutto era ancora distrutto dalla guerra, c’era la neve, il freddo, una lingua difficile, ma lì ho vissuto un’esperienza straordinaria con i giovani. Però, dopo 13 anni, avevo nostalgia dei Paesi latini e siccome già facevo avanti e indietro con l’Italia dove collaboravo con Sottsass e l’Olivetti, ho accettato l’incarico di curare la corporate image della Rinascente, che allora era una novità. Poi ho vissuto anni bellissimi insegnando all’Università di Bologna: l’establishment dei baroni era traumatizzato dal post ’68 e quel momento di disattenzione aveva reso possibile una rottura degli schemi proprio nella più vecchia università del mondo: fui chiamato a insegnare assieme a Eco, Volli e tanti altri. La mia fu la prima cattedra di semiotica».



effettivamente sembra incredibile: oggi i professori stranieri e i non accademici si contano sulle dita di una mano…
«Gli anni Settanta sono stati il miglior periodo dell’Italia. Vero: furono anni cupi a causa del terrorismo, però c’era una gran voglia di andare avanti e avevo la sensazione di vivere in un Paese dinamico e attraente. Oggi spero che la nazionalità italiana che ho voluto prendere mi protegga da questa caccia allo straniero! ».
Qual è il ruolo che le sta più a cuore: artista, educatore, teorico, progettista?
«La mia vita parte dall’arte. Negli anni 40 ho partecipato alle avanguardie sudamericane: eravamo convinti che attraverso l’arte si potesse cambiare il mondo. Poi è venuta l’esigenza di applicare questa tensione utopica agli altri campi, come il design, e ho fondato la rivista Nueva Visiòn che cercava la trasversalità delle esperienze. Questo passaggio mi ha portato a insegnare disegno industriale a Ulm e con la stessa passionalità, forse ingenuità e candore, ho poi sviluppato in Italia la parte teorica. Non c’è interruzione, ma continuità in tutte le mie esperienze. E ora che tutti erano pronti a darmi l’omaggio finale, io riapro il gioco con l’arte: ho ripreso la pittura, ma fuori dal mondo delle gallerie, dei critici, del mercato».
Che secolo è stato il Novecento?
«Fallimentare, se misurato con le nostre aspettative. Avevamo pensato che si potesse abolire ogni forma di intolleranza, che la religione sarebbe diventato un problema secondario, e invece gli entusiasmi si sono ridimensionati dopo gli anni 60».
Dunque vede il progresso del mondo in regressione?
«Abbiamo fatto dei grandi passi indietro e in questo momento vedo un grande impoverimento culturale che sta mettendo i giovani in drammatica difficoltà, ma mi sono sempre definito un pessimista costruttivo. Penso di essere molto più preoccupato di quanto lo sia il nostro primo ministro su come stanno andando le cose, tuttavia cerco sempre una sorpresa».
Un suo saggio del 1987 si intitola «Il futuro della modernità»: qual è oggi?
«Il nucleo fondamentale della modernità è la capacità di dialogo fra esseri umani e oggi dobbiamo confrontarci per esempio con culture non provenienti dall’Illuminismo o con i diritti civili delle donne. La modernità è un pronostico, un progetto non ancora realizzato sul quale si dovrebbe basare lo sviluppo».
Nel 1995 scriveva «Che cos’è un intellettuale. Avventure e disavventure di un ruolo». Oggi che cosa direbbe?
«Che ci sono molti nuovi ospiti al banchetto, come i giornalisti o gli opinion leader. Ma l’intellettuale resta colui che pensa altro, in modo diverso; colui che è vigile e critico sulle verità professate dai mass media. Forse oggi ha perso la voce, soprattutto perché non gli viene data la possibilità di parlare, di pubblicare. Lo stesso per i giovani: penso che abbiano grandi energie, ma non hanno le possibilità di esprimerle».
Che consiglio darebbe ai giovani?
«Uno solo: cercate di combinare critica e positività. Evitate le due tentazioni: nichilismo e cinismo opportunistico».

Francesca Bonazzoli